Se un fiume segna
un confine non è per
dividere
ma perché
ci sia acqua ai due lati
Corso di italiano per donne immigrate
Anno 1998-1999
COMUNE DI LIVORNO
Centro
Donna
Volume
promosso da Comune di Livorno, Politiche
femminili, l.go Strozzi1, 57123 Livorno.
Tel.
0586 890053; fax 0586 888310; e-mail: centro donna@comune.livorno.it
Copertina
e disegni di : Ambra Lunardi
Cura
editoriale: U. Comunicazione
ed editoria – Attività Editoriali del Comune di Livorno, p.zza del Municipio 1,
57123 Livorno. Tel 0586 820568; fax: 0586 820486; e-mail: pubblicazioni
@comune.livorno.it
Stampa: Pacini Editore S.p.A. - Pisa
Anche noi siamo stati un popolo di emigranti
L’importanza dell’arte e della cultura
Con la pubblicazione del volume Ci sia acqua ai due lati, prosegue
il progetto dell’Amministrazione comunale volto a consegnare alla città,
attraverso testimonianze dirette, la “memoria” tutta al femminile di uno dei
suoi punti “storici” di aggregazione: il Centro Donna.
La forma scelta è quella — abbastanza inusuale — di uno scambio di
domande e risposte attraverso il rapporto epistolare tra le operatrici del
centro e le donne straniere che hanno frequentato il corso di lingua italiana.
Ne vengono fuori ritratti di vita, ma anche analisi di situazioni
politiche, economiche, culturali molto diverse dalle nostre, ma con un filo
conduttore comune, costituito dalla presenza forte della donna all’interno del
nucleo sociale di appartenenza, sia esso a carattere tribale, collettivo,
familiare o mononucleare.
Quasi tutte le donne che hanno accettato di rispondere alle lettere/domanda
delle insegnanti sono state costrette a lasciare la propria città, nonché
abitudini ed affetti, per affrontare un’esistenza spesso difficile anche dal
punto di vista materiale, in continua ansia per la sorte dei propri familiari
lasciati in luoghi lontani, forse mai più raggiungibili.
Appartengono ai contesti sociali più disparati, sono molto diverse tra
loro, non solo per una eventuale differenza di età ma anche per carattere: in
alcune prevale il rimpianto, in altre l’ottimismo, ma tutte sono accomunate
oggi dalla consapevolezza di non essere sole.
Superare ideologie diverse, diverse culture nel nome della solidarietà
fatta di valori comuni costituisce — crediamo — la vera forza che ha portato
avanti negli anni il Centro Donna, cui va ancora una volta l’augurio e
l’apprezzamento dell’Amministrazione comunale.
Il
Sindaco di Livorno
Gianfranco
Lamberti
Premessa
Questa piccola
pubblicazione contiene una cinquantina di lettere che affrontano argomenti
diversi fra loro quali l’emigrazione, il senso dell’ospitalità, la cultura del
cibo, la cura e il rispetto per gli anziani, il valore dell’arte e della
cultura, la famiglia, la religione.
Questi scritti sono il
frutto di più di un anno di attività svolto presso il "Centro donna” di
Livorno durante un corso di lingua italiana tenuto da un gruppo di insegnanti
volontarie che da circa nove anni svolgono questa attività a favore delle donne
straniere presenti in città.
In tutti questi anni
qualche centinaio di donne ha frequentato questi corsi che sono stati per loro
non soltanto un’occasione per imparare la lingua italiana, indispensabile per
un proficuo inserimento in Italia, ma anche e, forse, soprattutto una
opportunità di trovare un luogo di accoglienza, di scambio, di comunicazione,
di comprensione e di amicizia che ha reso meno problematico il loro primo
periodo di permanenza nel nostro Paese. Crediamo di poter dire che le tante
donne che hanno frequentato il corso si sono sentite ascoltate e capite nelle
loro difficoltà, nei loro problemi e che fra noi insegnanti e loro si è creato
uno scambio umano ricco e significativo.
L’attività svolta
dall’ottobre 1998 al maggio 1999 è stata articolata e varia; oltre
all’insegnamento della lingua, realizzato in piccoli gruppi omogenei, si sono
svolti incontri con esperti di varie materie (sanità, scuola, immigrazione,
ecc.), visite guidate, visione di filmati, feste di condivisione, discussioni
collettive. Nel periodo novembre 1999-febbraio 2000 abbiamo completato il
lavoro relativo a questa pubblicazione. Gli scritti contenuti in questo
fascicolo costituiscono uno scambio interculturale, un confronto di esperienze
derivanti da mentalità diverse.
L’idea iniziale è stata quella di offrire a tutte le
partecipanti al corso degli spunti di riflessione attraverso una
lettera-stimolo scritta da noi volontarie, a cui è stata in grado di rispondere
solo una minoranza, costituita da donne con una discreta o buona conoscenza
della nostra lingua (con qualche rara eccezione di donne che hanno scritto
nella loro lingua materna). Lo stile dello scritto — la lettera — è stato
scelto al fine di un coinvolgimento personale più diretto e immediato, senza
nessuna presunzione di “obiettività” rispetto agli argomenti trattati. Il
nostro è stato uno scambio confidenziale, senza eccessive pretese, uno scambio
“leggero”, ma probabilmente vero e coinvolgente. Abbiamo intenzione di
continuare su questa strada che ci pare ricca di sorprese, di spunti di
riflessione, di possibilità di confronto.
Una annotazione: abbiamo
mantenuto volutamente intatto lo stile delle risposte, tutte firmate con
pseudonimi, limitandoci a qualche correzione ortografica. Infine, il titolo
della pubblicazione si ispira ad una frase, che ci è parsa significativa, contenuta in una delle lettere di
risposta.
Le
insegnanti volontarie: Mila Banchi, Daniela Barducci,
Una menzione particolare per Santi Bessi, interprete.
Prima Lettera
Forse nessuno ti ha dato il benvenuto quando sei arrivata in Italia.
Sei venuta qui dopo un viaggio lungo e faticoso, dopo aver lasciato la tua terra
e i tuoi cari.
Sei giunta qui senza conoscere quasi nulla di
noi, dell‘Italia, della sua cultura, della sua storia, delle sue
tradizioni.
Vorrei darti ora il benvenuto che
nessuno ti
ha rivolto al tuo arrivo e vorrei innanzitutto dirti che
capisco la tua fatica nel
compiere un lungo viaggio,
necessario ma duro da affrontare, le tue difficoltà nel
venire in un Paese in cui tu ti senti
straniera ed estranea, a partire dalla diversità della lingua, del cibo, della moneta, per arrivare ai modi di fare,
di comportarsi, di atteggiarsi, di esprimersi.
Tu hai tante cose da dirmi da raccontarmi,
cose che io non conosco e che solo tu conosci sia per ciò che si riferisce
alla tua scelta personale che ti
ha spinto a venire in Italia,
sia per quanto riguarda la cultura del tuo Paese rappresentata
dall’insieme di storia, di tradizioni, di usanze, di mentalità, di modi di fare e di essere. Ti vorrei fare tante domande su1 passato
e sul presente della tua terra, sulla situazione
economica e politica del tuo
Paese, sulla mentalità della gente, sullo
spirito che anima il tuo popolo. Credo che siano molte le cose che ci uniscono e che ci rendono simili ma penso che anche
molti aspetti ci differenzino.
Mi interessa conoscere la tua “diversità “e credo che anche a te interessi conoscerci e
capirci in quanto "stranieri” rispetto a te.
Comincio io a parlare di noi italiani, dell‘Italia, della nostra
mentalità, della nostra storia.
Prima di tutto voglio dirti che anche noi, fino a pochi
decenni fa, eravamo un popolo di emigranti. Anche noi siamo stati costretti a lasciare l’Italia per cercare lavoro in Paesi lontani (penso all‘Argentina in cui vivono milioni di figli o di nipoti di
italiani). Anche mio nonno
paterno, all'inizio del secolo, partì
per gli Stati Uniti e per parecchi anni lavorò nel Vermont, uno stato ai confini del Canada. Lì faceva il marmista,
cioè lo scalpellino, un lavoro
faticoso che gli diede ricchezza
(diventò addirittura padrone di una piccola fabbrica di marmo, assieme ad altri italiani) ma gli procurò anche una grave malattia ai polmoni, la silicosi, che lo portò prematuramente alla
morte. I marmisti, durante il loro lavoro, per ore e ore sono costretti a respirare
polvere provocata dalla lavorazione del marmo col risultato di
un danno irrimediabile alla salute. Così mio babbo nacque negli Stati Uniti, ci visse una
trentina d’anni per poi tornare definitivamente in Italia
assieme ai genitori.
All'inizio del 1900 l‘Italia era in
gran parte un Paese contadino in cui esisteva grande miseria ed
ignoranza. L’analfabetismo era
assai diffuso; la scuola
elementare veniva frequentata da pochi; era considerato un lusso mandare
a scuola i propri figli che erano più
utili a casa, nel lavoro dei campi o
nei lavori di manovalanza o di cura
dei fratelli più piccoli. C‘erano
già in Italia, sin dal 1800, alcune
grosse fabbriche ma erano concentrate
nelle grandi città del Nord:
Milano, Torino, Genova.
All'inizio del secolo anche qui da noi si moriva per mancanza di un‘alimentazione
adeguata: pensa che un piatto
tipico del Nord era la polenta di granturco (mais) che
costituiva il cibo quotidiano
assieme a latte, fagioli e poco più. Non c‘era varietà alimentare
quindi si soffriva e si
moriva di molte malattie, quali
la pellagra, causate dall’avitaminosi
e dalla mancanza di proteine. In
quegli anni un altro mio nonno (da
parte di mia mamma) era medico
condotto in un Paese del Polesine (zona
della pianura padana in provincia di Rovigo). Lui curava la povera gente, si alzava di notte quando era chiamato per un bisogno o per un‘urgenza, spostandosi in bicicletta anche per chilometri in mezzo alla nebbia;
spesso si toglieva di tasca dei soldi per permettere ai propri
pazienti di comprare un po’ di carne
che i contadini di allora mangiavano assai raramente, per lo più in occasione di
grandi feste quali Natale e Pasqua.
L’emigrazione continuò anche negli anni
successivi e non ebbe interruzione
neppure dopo la seconda guerra mondiale (1940-1945). Nel
Credo che sia necessario
mantenere viva la memoria per capire di
più i problemi di chi in questi anni
lascia la propria terra. Non
possiamo far finta di non capire: i vostri problemi di ora sono i nostri stessi problemi del
secolo appena concluso. Tu cosa
ne pensi? Quali sono le tue idee in
proposito? Quali le tue esperienze? Se
riesci a comunicarmele te ne
ringrazio, mi offrirai una possibilità di capire meglio.
Se non riesci ad esprimerti bene in italiano,
rispondimi pure nella tua
lingua, in caso di difficoltà a capire mi
farò aiutare da chi la conosce bene.
Un’insegnante del corso
Risposte
Cancelliamo dal vocabolario la parola
“straniero”
Sono
venuta a partecipare a questi corsi o, per meglio dire, incontri che il Comune
di Livorno ha voluto organizzare con insegnanti italiane e alunne straniere, credo
con il fine di aiutare queste ultime a superare le grandi difficoltà di tutti
quelli che, per diverse circostanze, finiscono per identificarsi come
“stranieri”, spinta da due motivi. Il primo: accompagnare mia cognata
“paraguaya” che sicuramente troverà attraverso nuove conoscenze maggior
facilità di inserimento in questo che per lei è veramente un nuovo mondo. Il
secondo motivo, debbo confessarlo, è che io stessa mi considero un po’
straniera. Mi è doveroso chiarire questo concetto di “un po’ straniera”, ma
realmente non posso dirmi completamente italiana per aver vissuto poco più di
due anni in questo meraviglioso Paese, né posso considerarmi “paraguaya” per
aver vissuto per vent’anni in quel bellissimo Paese, dove il caso mi fece
nascere da una madre e un padre italiani i quali, giorno dopo giorno, mi
crebbero e mi fecero vivere in un clima totalmente italianizzato. E così che,
invece di usare l’espressione “un po’ straniera” meglio sarebbe definirmi “due
volte straniera”.
Qualcuno
potrebbe pensare che questa mia strana situazione abbia potuto crearmi doppi
disagi. Se in questo momento potessi rivolgermi a tanti stranieri, i quali al
pensiero dei loro ricordi del passato si rattristano, direi semplicemente
queste parole: noi dobbiamo trovare la forza di cancellare una parola sola dal
vocabolario e questa parola è “straniero”, perché ognuno di noi ha il
sacrosanto diritto di sentirsi uguale a tutti gli altri che quotidianamente
incontra ovunque, non importa se a Seoul o a New York. Lo stesso vale per un incontro
tra un tibetano e un gaucho della pampa argentina nella campagna di Cecina.
So
che non è facile sperare che questo possa accadere in breve tempo, però gli
uomini camminano e le montagne stanno ferme... L’umanità è sempre più vicina al
suo incontro. Il cielo è bello ovunque e gli oceani, che sempre rimarranno
enormemente profondi, giorno dopo giorno diventano sempre più stretti... Una
cosa sola vorrei dire: se la terra è il dono che Dio ha concesso all’uomo,
comprenda l’uomo che Dio stesso nel creare la
Terra
non segnò confini. Se un fiume divide un territorio è perché ci sia acqua ai
due lati... Possa presto l’umanità costruire infinità di ponti per unirci
sempre più, questi ponti non costeranno assolutamente niente perché non hanno
bisogno di ferro e cemento. Dovremmo solo usare una materia prima che si
incontra in abbondanza in ognuno di noi: basta solo scavare nel nostro intimo e
lì incontreremo tutto l’amore necessario per farci finalmente sentire cittadini
della terra e far dimenticare pene e tristezze che possono affliggere l’animo
di chi casualmente si incontra a un passo da quella che chiama “la mia terra”
quando esiste solamente una terra per tutti.
Luisa (Paraguay)
Sono un’emigrante di prima classe
Rispondo
alla tua gentilissima lettera di accoglienza il meglio che posso. Nella tua
lettera tu parli di inizi difficili, del fatto di trovarsi in una terra strana
e straniera da soli, di come è difficile emigrare e lasciare tutto il tuo alle
spalle, nel tuo Paese. Io mi sento in colpa, sono troppo fortunata. Vengo da un
Paese “più o meno” ricco, un Paese comunitario che mi ha dato l’opportunità di
emigrare senza fatica. Io sono un’emigrante di prima classe e questo mi fa
sentire male, mi fa sentire in colpa per avere troppo (e non valutarlo spesso).
Per
me è stato facile fin dall’inizio, perciò la mia storia non è paragonabile con
le storie delle altre. Anch’io ho la famiglia, gli amici, le mie cose lontane,
però sono io che ho fatto questa scelta. Io posso scegliere e non ho parole per
ringraziare per questa opportunità.
Rachele (Spagna)
Grazie del benvenuto in Italia
In
Italia sono venuta per studiare la musica e la lingua italiana. Quando venni in
Italia la prima volta avevo il visto di studio per la lingua italiana, pagato in
Germania molto. Quando mi iscrissi al Conservatorio di La Spezia, il vecchio
visto non era più regolare. Dovetti tornare in Giappone e fare un nuovo visto
di studio per la musica, annullando il vecchio.
In
ogni città dove ho studiato, Perugia, La Spezia, Livorno, ho notato molta
differenza nei documenti che richiedono le persone della Questura. Il mio Paese
ha una cultura, usanze, mentalità ecc., molto diverse dall’Italia.
Il
Giappone è un Paese che ha un tasso di disoccupazione del 2,5%. Invece l’Italia
circa del 12%. I cittadini italiani non sono molto contenti di vedersi arrivare
da ogni Paese del mondo persone in cerca di lavoro. Però gli italiani non
vogliono fare alcuni lavori che così vengono fatti da stranieri. Sui giornali
si leggono molte cose positive e negative. Ad esempio: gli italiani in futuro
avranno molti anziani e poche persone che lavorano; negli ultimi anni sono
aumentate le nascite di bambini stranieri in Italia. Per cui questi bambini in
futuro, diventati grandi, lavoreranno in Italia. L’ingresso degli stranieri in
Italia non mi sembra ben regolamentato, a differenza di quanto succedeva agli
italiani che partivano anni fa in cerca di lavoro.
Giunko (Giappone)
Mi sento come punita perché sono nata
nel mio Paese e non in un altro
Ogni
essere umano nasce senza la possibilità di scegliere né i suoi genitori, né il
Paese, né il tempo storico o economico, né la ricchezza o la povertà della sua
famiglia. Ogni bambino appena nato è
costretto a cominciare la sua vita da una base già determinata
indipendentemente dalla sua volontà. Ecco perché esistono bambini, persone
analfabete e poverissime che sono già contente di essere vive, contente di aver
trovato da mangiare e un posto dove dormire. Esistono anche -delle persone
molto ricche che hanno perso la ragione della loro vita e cercano di capire
perché non sono felici, di scoprire chi sono, ma non ci riescono. Loro non
hanno sofferto le cose semplici, la difficoltà di trovare un pezzo di pane o un
posto di lavoro. Il troppo benessere, secondo me, trovato fin dalla nascita, in
un certo modo ostacola la capacità di valorizzare le cose essenziali della
vita. Con tutto questo non voglio dire che per essere felice la gente debba per
forza soffrire; assolutamente no, però si può anche cercare di capire le
ragioni degli altri, perché sono diversi, che cosa li ha fatti diventare così
come sono, cercare di aiutarli, perdonare e amare.
Questi
sono i miei pensieri e io sono una donna bulgara di 30 anni: sono una straniera
non estranea però ai problemi degli altri stranieri e degli italiani. Vorrei
raccontare la storia del mio Paese così come la conosco.
La
Bulgaria nacque nell’anno 681 quando tre diverse grandi tribù (Traci, Savi,
Protobulgari) decisero di unirsi in un unico popolo il quale, nel corso dei
secoli, diventò sempre più grande e forte. Gli eventi importanti furono la
cristianizzazione dei Bulgari e la creazione dell’alfabeto bulgaro da parte dei
fratelli Cirillo (da qui chiamato Cirillico) e Metodio, allievi della famosa
scuola di Solun.
Nel
XIII secolo, mentre le truppe militari bulgare erano occupate a difendere i
confini dagli attacchi degli Unni e Nomadi, il potente impero Ottomano del sud
invadeva
Negli
anni seguenti la Bulgaria perse nella prima guerra mondiale e si sentì la forte
presenza dell’impero austro-ungarico. Il 1918 fu l’anno della guerra per la
liberazione della terra Rumelia sud (perché prima faceva parte della Bulgaria),
rimasta ancora sotto il dominio turco. In seguito la Bulgaria riprese la sua
terra però, non riuscendo ad unire la Macedonia, perse una grande parte del suo
territorio. Nella seconda guerra mondiale il governo si arrese al forte nemico
con la speranza di salvare il popolo. Si sentiva la forte influenza del partito
comunista, nacque il movimento partigiano il quale, fino alla fine della
guerra, rimase il protagonista del grande movimento per la liberazione dal
fascismo. Vorrei evidenziare il fatto che la Bulgaria è l’unico Paese che è
riuscito a salvare i suoi Ebrei dallo sterminio. Un ministro del governo,
Dimitar Pescev, riuscì a convincere gli altri ministri che l’assassinio dei
40.000 Ebrei era vergognoso e sarebbe stata una macchia incancellabile nella
storia bulgara. Il governo fece resistenza e lo Zar bulgaro fu costretto a
rifiutare a Hitler l’estradizione degli Ebrei (i fatti sono ben narrati in un
libro recente scritto da un autore italiano "L’uomo che fermò Hitler").
Questi
sono gli eventi più importanti della storia del mio Paese fino al 1944 e da qui
invece comincia la storia della mia famiglia. Nel 1943 mio nonno materno fu
ricoverato in ospedale per un’ernia, qui fu riconosciuto da un fascista come
aiutante dei partigiani. Così durante l’operazione arrivò l’ordine di
sospendere l’intervento e mio nonno morì sotto i ferri. Il brutale omicidio fu
scoperto alcune settimane dopo e mia nonna rimase vedova con sette bambini
piccoli. La famiglia di mia madre aveva
Devo
dire che subito dopo la liberazione dal fascismo, molti bulgari, non contenti
del governo della politica socialista e anche di essere stati derubati dallo
Stato, emigrarono e furono costretti a cercare altrove quello che non potevano
avere nel loro Paese. L'emigrazione fu indirizzata verso Stati Uniti, Canada,
Australia, Germania, dove si sono fermati anche gli zii di mia madre. Negli
anni seguenti tutto questo non poté più accadere, perché i confini furono
chiusi. E se qualcuno avesse ricevuto il permesso di uscire dalla Bulgaria, lo
poteva fare esclusivamente verso i Paesi del mondo socialista.
Io
dall'età di quattordici fino a vent’anni ebbi la possibilità di visitare tutti
i Paesi socialisti europei. Da quello che mi ricordo e secondo le mie
osservazioni, l’Ungheria era il Paese in cui si viveva meglio e mi ricordo
anche che in Polonia, a Varsavia, se un turista parlava russo non gli
rispondevano neanche. Non dimenticherò nemmeno le lunghe file per il pane; i
numerosi negozi immensi e vuoti, i visi turbati della gente di Kiev in Ucraina
nel 1990. Nello stesso tempo la situazione in Bulgaria era migliore di tanti
altri Paesi che facevano parte dell’Unione Sovietica, ma era sempre molto difficile.
Fino al 1989 la Bulgaria è stata una repubblica popolare sottoposta a una
dittatura. Poi il Paese si è avviato sulla via della democrazia con molti
partiti politici con un presidente democratico (Petar Stoianov) e una severa
guerra contro l’inflazione e
Io
sono nata nel
Secondo
me qui in Italia molte persone sono riuscite a trovare un giusto equilibrio tra
lavoro e tempo libero, grazie anche al benessere presente in questo Paese. Sono
rimasta però meravigliata da una cosa - il poco rispetto per la “privacy” della
gente - ovviamente da quello che ho potuto notare. Poi per fare la spesa è
necessario molto più tempo che nel mio Paese, perché sia agli acquirenti che ai
venditori piace parlare un po’ troppo. Sono rimasta anche sbalordita dal
comportamento di alcuni automobilisti italiani che non si fermano nemmeno
quando ci sono le persone sulle strisce pedonali. Spesso mi succede che la
gente, cercando di essere gentile, mi rivolge una domanda senza però
interessarsi alla mia risposta. Questo atteggiamento mi offende molto. Spero
che non sia premeditato e che sia solo una questione di carattere.
Devo
dire che, forse diversamente da molti altri stranieri, io e la mamma siamo
state molto ben accolte e ospitate dalla famiglia italiana presso cui lavoro.
Indipendentemente da tutto, dopo due anni in Italia mi sento ancora come un
albero senza radici. Sento moltissimo la mancanza dei miei genitori (mia madre
è tornata in Bulgaria un anno fa) e dei miei amici.
Mi
rendo conto di essere cambiata, di aver perso il senso di sicurezza, il senso
di poter affrontare tutto quello che mi potrebbe succedere. Nel tornare in
Bulgaria ho notato una cosa interessante; sentivo di riacquistare ciò che
pensavo di aver perso, la sicurezza, l’autostima, la terra ferma sotto le mie
gambe e osservavo la vita da un altro punto di vista: arricchito da una nuova
esperienza.
In
un altro Paese la tua vita dipende molto dalla burocrazia, dalla legge che ti
considera privilegiato se fai parte della Comunità europea e svantaggiato se
sei extra-comunitario. Tutto questo, secondo me, non è giusto e in un certo
modo anche molto umiliante. Ti senti come punito, perché nato nel tuo Paese e
non in un altro. La diversità non si deve considerare un difetto, ma un pregio.
Da questa diversità si può imparare e può qualcosa di speciale e meraviglioso.
Quelli che sono diversi non si devono vergognare, anzi devono essere
orgogliosi.
Io
lo sono e con tutta la mia forza cerco di combattere la fragilità dovuta alla mia
inadeguatezza e di non perdere la stima di me stessa. Cerco di imparare anche a
parlare e a scrivere bene in italiano per poter esprimer meglio la mia
esperienza, i miei pensieri. Così spero un giorno di poter trovare un lavoro
che mi piaccia e mi soddisfi.
Villy (Bulgaria)
Mi sentivo abbandonata da tutti e da
tutto
Vorrei
rispondere alla tua lettera e dirti come i tuoi pensieri sono sbagliati. Ma non
è così. Nessuno, proprio nessuno mi ha dato il benvenuto quando sono arrivata
in Italia. Il viaggio è stato lungo e faticoso, più di quaranta ore. Dopo che
ho lasciato la mia casa, i miei cari e la mia terra mi sentivo abbandonata da
tutti e da tutto. Piangevo tutti i giorni. Quando mangiavo pensavo a cosa
mangiavano loro, a chi preparava il cibo, chi faceva il bucato. Erano restati
soli e abbandonati. Io non voglio parlare di emigrazioni e di guerre, perché sono
sempre esistite, esistono ed esisteranno. Fame? Sempre qualcuno in questo mondo
è affamato, triste e addolorato. Di questo parlano tutti.
Io
ti voglio fare un’altra domanda. Cosa significa per te amore? Cosa significa
per te amare? Questi sentimenti esistono ma nessuno vuole parlarne. Cosa mi
puoi dire sull’amore e sull’amare? Ti voglio dire come io vedo queste cose.
Come le sento. L’amore è quando esci per la prima volta con una persona
sconosciuta per conoscerla e scopri subito che l’ami per sempre, prima di
conoscerla. L’amore è una canzone cantata da due persone che si amano. L’amore
è guardare il cielo e scoprire che la levata del sole è bella come il tramonto.
Che ci sia il cielo con milioni di stelle o con la luna piena o senza luna, è
lo stesso bello perché siamo insieme. Sentire gli stessi profumi della natura e
dividere dei sentimenti che prima non hai sentito mai.
L’amore
è tanto misterioso, sogni violenti che ti portano pensieri sui baci che
vorresti e che vorresti regalare. L’amore è un’ossessione non controllabile.
L’amore è un dolore che riempie la bocca con lacrime quando siamo soli. L’amore
insieme è dolce e amaro, un miscuglio nero e profondo. L'amore è come la sabbia
che passa tra le tue dita senza ferirle. L’amore è la paura e la rabbia, il
fallimento e la gloria, il paradiso e l’inferno, la gioia e la tristezza,
l’amore e l’odio, la guerra e
Come
puoi vedere l’amore non nasce dalla testa ma dal cuore sì. Il sangue lo porta
in tutte le parti del nostro corpo dove non è possibile cancellarlo. Dalla
testa sì, ma dal cuore mai. L’amore che sento è l’unica ricchezza che ho.
Ricchezza che è possibile portare in tutte le parti di questo mondo.
Miriana (Iugoslavia)
Dentro i miei sogni sentivo una voce
femminile che mi chiamava per nome
Sono
peruviana di nascita; adoro il mio Paese; però, per circostanze della vita, ho
dovuto lasciare la mia famiglia ed il mio umile focolare. Non dimenticherò mai
quella sera quando arrivai in Italia; un Paese diverso, diverso nell’aspetto
socio-culturale-politico, nelle sue tradizioni e nei suoi costumi. Chissà se
potrò avere la stessa fortuna di alcune persone che per qualsiasi motivo stanno
qui. Il motivo della mia presenza in questo Paese ha un solo obiettivo: il
lavoro. Per ora. Spero più avanti di conoscere prima di tutto la gente, le sue
forme di vita suoi costumi. Adesso comincio a raccontare in dettaglio di come
fu il mio arrivo in questo meraviglioso Paese, l’Italia. Era una sera che non
dimenticherò
Fino
a questo momento tutto andava bene, però man mano che passavano i giorni
sentivo una grande nostalgia dentro di me: piangevo e sentivo necessità di
vedere la mia famiglia, ma ciò era impossibile; potevo solo sentire per
telefono le loro voci. Provavo una grande tristezza, la mia unica consolazione
era mia cugina alla quale sono molto affezionata. Grazie a Dio mi sto
abituando, ho amiche meravigliose con le quali posso scambiare idee e sentirmi
bene; ora sono ancora più tranquilla perché mi trovo circondata da persone
buone e disposte ad insegnarmi ciò che tanto desidero, cioè conoscere la lingua
italiana.
Olga (Perù)
(traduzione dallo spagnolo)
Il tempo di far crescere mia figlia e
farle ricordare l’Africa anche in Italia
Mio
padre faceva il cuoco in una casa di inglesi; non era un grande lavoro, ma
risparmiando riuscì anche a mantenere una famiglia; cominciò da giovane questo
lavoro fino a che non fu troppo vecchio per lavorare. Sposò addirittura due
donne; la più giovane era mia madre, lei era stupenda, ci voleva un mondo di
bene a me e ai miei fratelli: lavorava in una fabbrica di cotone e la domenica,
invece di riposarsi, lavorava nel suo orto. Ebbe nove figli, cinque bambini, di
cui tre morti, e quattro bambine. Mio padre non riuscì a mandarci a studiare
tutti, quindi preferì far studiare solo i miei due fratelli e noi ragazze ci
limitammo a studiare il Corano. Mia madre, per “consolarci”, con i risparmi di
una vita ci costruì una casetta come bene da ereditare, a titolo di noi quattro
sorelle. Mia madre però morì giovane; io e le mie sorelle eravamo al cinema,
quando ci vennero a chiamare urgentemente: nostra madre si era sentita male,
aveva litigato con un vicino, le era salita la pressione; le venne un malessere
e morì. Noi ragazze e ragazzi, ormai già grandicelli, dovevamo andarci a
trovare un lavoro. Io lo trovai part-time in una fabbrica a Mombasa; quando non
lavoravo facevo dolci e li vendevo nel quartiere dove abitavo. Mia sorella
invece trovò marito e ebbe dodici figli, solo che per i primi cinque non riuscì
a terminare la gravidanza, fece cinque femmine e un maschio. L’ultimo morì
assieme alla madre che, giunta al termine della gravidanza, non ce la fece a
partorire il figlio. Un’altra sorella si sposò con un indiano ed ebbe due
figlie e un figlio.
Io
dopo qualche tempo conobbi mio marito, lui veniva in Kenia in vacanza; mi
conobbe a Malindi in un bar, ci piacemmo subito. Impossibilitato a portarmi
subito in Italia, rimanemmo fidanzati per tre anni, in cui lui veniva a
trovarmi due volte l’anno, dopo ci sposammo; ebbi subito una figlia. Dopo tre
anni, tempo di far crescere mia figlia e farle ricordare l’Africa anche in
Italia, venimmo qui a Livorno. Ogni due anni però vado in Kenia per tre mesi
per salutare parenti e nipoti. Prima ci andavo con mio marito che ci
accompagnava e ci riprendeva. Una di queste volte ci andammo d’estate, dato che
nostra figlia è in vacanza; capitammo in una situazione un po’ bellicosa:
c’erano delle sommosse per
Il
brutto di vivere lontano dal mio Paese è che non puoi star vicino alle persone
a cui vuoi bene, se stanno male. Mio padre è morto qualche anno fa. Ero qui e
non ho potuto salutarlo. E morto felicemente però: la notte si era chiuso in
camera per dormire, la mattina non s’è più rialzato.Però qui sto bene con mia
figlia e mio marito, sto cominciando a fare nuove amicizie e soprattutto se ho
qualche soldo aiuto la mia famiglia quando ne ha bisogno.
Selima (Kenya)
Mi sento protetta
Alcuni
parenti mi hanno dato il benvenuto. Abbiamo lasciato il nostro Paese,
Lidia (Santo Domingo)
Mi hanno accettata
Io
mi chiamo Natascia, ho 27 anni, sono olandese e sono quattro anni che vivo
insieme al mio fidanzato qui a Livorno. Sono venuta qui ma ci siamo conosciuti
nelle Dolomiti dove io lavoravo come cameriera in un albergo, poi abbiamo
deciso di venire qui. Sono venuta in Italia perché volevo imparare un’altra
lingua e volevo sapere di più della mentalità italiana. Devo ammettere che è
abbastanza difficile trovare un lavoro; da noi è molto più facile, anche per
gli stranieri. Comunque piano piano dovrebbe venir fuori qualche cosa, ma ci
vuole pazienza. Spero che Facendo questo corso di italiano sarà più facile trovare
un lavoro. In Olanda ho sempre lavorato da quando avevo quindici anni: a quell’età
puoi lavorare part-time, se vuoi.
Ho
sempre lavorato perché in Olanda non è come ho visto qui che i tuoi genitori ti
mantengono e ti pagano tutto. Questa è una cosa che a me dà molto fastidio,
vedere tanti “figli di papà”o “mammoni”. Io conosco delle persone che hanno la
mia età e che non hanno mai lavorato in vita loro; vivono sempre a casa e
“spellano” i propri genitori. E le loro mamme stanno sempre pronte per loro. Certo
che una mamma è sempre una mamma, ma come se ne approfittano certi figli a me
non piace per niente. Però non sta a me giudicare, qui sono abituati così. Io
sono contenta, conosco anche altre amiche olandesi ed italiane e sono contenta
di aver conosciuto il mio ragazzo e la sua famiglia. Loro mi hanno accettata e
questo è importante.
Natascia (Olanda)
L’Italia è un Paese bello e la gente è
gentile e parla ad alta voce
Prima
di tutto vorrei dire a voi che sono venuta qui in Italia perché sapevo che mi
aspettava il mio ragazzo, ora mio marito. Alcuni anni fa era venuto in vacanza
in Messico e ogni giorno ci incontravamo sulla spiaggia e parlavamo a lungo. È
tornato più volte in Messico per le sue e la nostra amicizia si è trasformata
in amore. Sì, al principio era diffide per me esprimermi nella vostra lingua,
ora però mi sono abituata, almeno lo credo, e capisco ciò che mi viene detto e
riesco a esprimere i nei pensieri.
L’Italia
è un Paese bello e la gente è gentile e soprattutto parla tanto e ad alta voce.
Il Messico è il mio Paese, bello in quanto al clima: non c’è bisogno di
comprare abiti estivi o invernali perché dove io vivo fa sempre piuttosto caldo
e il clima si può definire primaverile. In futuro vorrei tornare al mio Paese
per viverci per sempre purché la situazione politica migliori. Al governo
messicano forse manca l’amore verso il Paese, perché , troppi pensano a se
stessi. È un Paese ancora giovane dove la maggior parte della popolazione è
costituita da bambini e ragazzi, i vecchi sono pochi.
Marta (Messico)
Mi abituerò a vivere sapendo di essere
tanto lontana dalla mia culla?
Cerano
nella stanza un silenzio ed un’oscurità che però furono disturbati da un suono
inconfondibile: una voce conosciuta, una voce che, da tanto lontano, mi
sussurrava parole che fecero cambiare la mia vita. Tutto mi sembrava
impossibile: io andare in Italia? Sì, sì in Italia, lui mi ripeteva
insistentemente per telefono; un secondo dopo mi sembrava che le parole dette
non avessero senso e la mia mente ripeteva più volte: Italia, Italia, io in
Italia. All’inizio l’idea mi sembrò fantastica perché già da molto tempo
desideravo viaggiare e conoscere’ nuovi Paesi; però questa non sarebbe stata
una semplice vacanza ma piuttosto un definitivo trasferimento.
Oggi
voglio raccontarle che per me questa decisione non fu facile da prendere: da
una parte il Paraguay, dove io sono nata e cresciuta e dove sono nati e
cresciuti i miei genitori; un Paese che mi ha trasmesso la sua cultura, le sue
abitudini, le sue tradizioni e del quale conosco e amo le bellezze naturali.
Dall’altra parte un Paese, del quale conoscevo solo il nome ed a malapena la
sua ubicazione sulla carta geografica, che però mi faceva pensare a molte cose.
Ad esempio: come saranno le persone che vi vivono, quali le loro abitudini?
Avrò difficoltà ad imparare la lingua? Mi abituerò a vivere sapendo di essere
tanto lontana dalla mia culla? Tutte queste domande che facevo a me stessa
venivano cancellate al solo pensiero che in quel Paese mi aspettava una vita
felice vicino alla persona amata. Io sì ho avuto la fortuna di ricevere un
benvenuto, però questo non mi ha aiutato totalmente nelle difficoltà e nel
cambiamento al mio arrivo in Italia. Non posso ancora raccontarle molto
dell’Italia perché sono trascorsi solo pochi mesi, però posso dire che in
questo poco tempo trascorso nel conoscere meglio l’Italia ho imparato molte
cose nuove ed ho apprezzato la generosità e la gentilezza delle sue genti. Mi
hanno sinceramente sorpreso le sue bellezze naturali e monumentali visitando
alcune delle sue città come Roma, Firenze, Siena, Pisa, Lucca, Livorno ed
altre.
Io
so che non tutti quelli che arrivano in Italia da altri Paesi hanno la stessa
fortuna mia e che non vengono per lo stesso motivo, che hanno dovuto lasciare
il loro Paese per cercare in questo una migliore forma di vita che nel loro
Paese non hanno potuto realizzare. Io desidero, come fossi italiana, aiutare e
proteggere questi nostri fratelli, dando loro l’opportunità di potersi
realizzare e vivere una vita felice con tutti noi.
Gloria (Paraguay)
(traduzione dallo spagnolo)
Ho fatto la scelta giusta
Penso
che la mia storia sia un po’ diversa da quella delle altre donne che hanno
scritto. Mi considero molto fortunata perché la mia decisione di venire in
Italia si è basata sul modo di vivere e non su motivi politici o economici. Infatti
economicamente stavo molto meglio negli Stati Uniti, ma non credo che avere più
soldi sia direttamente collegato con l’avere una vita migliore. C’è un detto:
il denaro può comprare molte cose, ma non
La
mia breve storia: avevo quasi trentadue anni quando venni in Italia per una
vacanza. Fu un’esperienza che finì per cambiare tutta la mia vita. Qui . Italia
incontrai Marco — mio marito — e mi innamorai di lui; era nato e cresciuto a
Livorno. Fui anche molto impressionata dalle persone che incontravo e dalla
loro voglia di vivere. Io stavo bene negli Stati Uniti, in quanto avevo un
ottimo lavoro, la sera studiavo per prendere il “bachelor” (diploma di
baccalaureato); avevo guadagnato soldi sufficienti per comprarmi un’auto nuova,
avevo un appartamento sulla spiaggia; quando volevo uscivo con i miei amici e
viaggiavo un po’. Avevo una vita piena e attiva. Ma sentivo sempre che mi mancava
qualcosa. Secondo me -anche se non la pensate così- mi mancava la persona
giusta da amare e un senso di tranquillità. Quando trovai la persona giusta
dovetti affrontare il problema del “dove” avremmo potuto vivere la nostra vita
insieme in modo felice e tranquillo. Marco era disposto a trasferirsi negli
Stati Uniti, ma altrettanto volentieri sarebbe rimasto qui in Italia con me;
così la decisione fu quasi del tutto mia. Penso che per spiegare come giunsi a
decidere di vivere in Italia, debba dare un’idea più approfondita della mia
esperienza. della vita e della cultura negli Stati Uniti.
Dunque:
perché avevo lasciato una vita comoda negli Stati Uniti? Perché avevo deciso di
venire in Italia, Paese di cui non conoscevo la lingua, del cui popolo non
capivo la cultura e dove ero sicura che la mia situazione economica sarebbe
stata peggiore? In breve: ho fatto questo perché penso che in Italia ci sarebbe
stato un modo migliore di vivere e che Marco non sarebbe mai stato felice negli
Stati Uniti. Negli Stati Uniti, per la maggior parte della gente, la vita si
impernia sul lavoro. Non è anormale lavorare cinquanta o sessanta ore alla
settimana, o anche più, con al massimo mezz’ora o un’ora di intervallo per il
pranzo. Dove lavoravo come parrucchiera, non c’era tempo per il pranzo; si
mangiava qualcosa velocemente mentre la nostra cliente era sotto il casco.
Un’esperienza molto diversa dal pranzo comodo che molte persone e le loro
famiglie si godono qui. Penso che questa piccola differenza sia indicativa da
sola della diversissima cultura dei due Paesi. Ho lavorato nello stesso luogo
per tredici anni. Ho avuto occasione di conoscere molte persone di successo, di
parlare con loro della loro vita e del loro modo di sentire. Una delle cose che
mi lasciava maggiormente perplessa in queste persone, per il resto simpatiche,
era il loro modo di concepire la vita in famiglia, il loro modo di crescere i
figli e le loro idee su cosa rende positiva la vita.
La
norma, per la maggior parte delle donne in carriera che conobbi allora (la
maggior parte delle donne lavora fuori casa), è sposarsi, poi comprare la casa,
macchine nuove, fare viaggi con i mariti. Solo quando si sono sistemate ed
hanno un buon lavoro, decidono che è il momento giusto per avere un bambino.
Dopo il concepimento, le donne lavorano quasi fino al giorno della nascita del
figlio; dopo la nascita stanno a casa in maternità per sei settimane. Terminato
il periodo del congedo per maternità, il bambino va al “nido” per tutto il
giorno. Di solito il bambino viene lasciato al nido al mattino alle 6,30 e
viene ripreso soltanto alle 18,30. Se si considera che la maggior parte dei
bambini va a letto alle 20,30, restano solo circa due ore al giorno da passare
con i genitori. Di solito io vedevo allevare così i bambini, nelle classi
medie. Questi bambini passano con i loro stanchissimi genitori solo poche ore
la sera ed il fine settimana. Perché? Perché credo che l’ideale di vita
americano sia diventato: “devo avere tutto e forse un po’ di più di tutti gli
altri”. Se la mamma stesse a casa più a lungo e lavorasse di meno, non potremmo
avere una casa grande, due auto nuove e neppure pensare a due settimane di
ferie per tutta
Certo,
in Italia vedo molte mamme che lavorano, ma la famiglia è ancora intatta. Le
mamme stanno con i figli più di due ore al giorno, inoltre molti bambini stanno
con i nonni quando le mamme non ci sono. Molte volte, da quando sono in Italia,
ho sentito dire: “devi fare molti sacrifici per i tuoi figli”. Credo che in
America nessuno voglia sacrificare niente; tutti vogliono avere tutto, cosa che
non è
Ovviamente ci sono persone che hanno
fatto i sacrifici giusti per far crescere i loro figli in una famiglia
amorevole. Ne conosco tante. Ma quando i figli hanno cinque anni li devi mandare
a scuola. Allora hai paura che qualche altro ragazzo vada a scuola col fucile e
cominci a sparare. Inoltre ogni giorno i tuoi figli sono bombardati da messaggi
che suggeriscono che la loro famiglia non è abbastanza “bene” perché le loro
scarpe da tennis non sono da duecento dollari come quelle degli altri ragazzi;
i soldi e il cerimoniale che ne deriva sono ciò che conta nella vita; se stai
male prendi queste pillole e tutto tornerà a splendere. So che anche da adulta
mi è stato facile essere coinvolta nella gara nazionale ad avere di più. Non vorrei
questa pressione su nessun bambino. Per questi ed altri motivi ho deciso di
stabilirmi in Italia. Certo, anche qui esistono molti degli stessi problemi. Inoltre
molte cose nella vita di tutti i giorni sono molto più difficili qui, come la
pulizia degli abiti e il fare la spesa, per citarne solo due. Non ho tutte le
cose di lusso che avevo negli Stati Uniti e che volta mi mancano molto. Mi
manca la mia famiglia che mi vuole bene, i miei amici, però penso di aver fatto
la scelta giusta. So che nessun luogo è perfetto e che non si può fare
un’affermazione e pensare che sia vera per un intero Paese. Dalla mia
esperienza qui in Italia posso dire però che le persone con cui sono venuta a
contatto sono molto più sicure di sé, tranquille, si occupano degli altri e si
godono la vita più di quelle che, negli Stati Uniti, hanno più soldi e
benessere. La famiglia qui è molto più importante, il che —io credo — sia tra
le cose più belle dell’Italia e che l’America ha perduto. Sarei felice se
potessi allevare un bambino con tutte le buone qualità che ho riscontrato nella
gente di qui. Secondo me sono le qualità che gli americani avevano ma che hanno
quasi del tutto dimenticato nella voglia sfrenata di possedere tutto.
È stato molto difficile per me esprimere ciò che sento e raccontare le mie
esperienze in questa breve lettera, ma spero che sarete in grado di capire
meglio quello che sono attraverso ciò che ho scritto. Grazie per avermene dato
l’occasione.
Sinceramente
Antonia (U.S.A.) (Traduzione
dall’inglese)
Sono nata nel lontano 1984
Il
Kenya comincia ad essere importante dal 1498, cioè con l’arrivo di Vasco de
Gama a Mombasa e a Malindi. Qualche secolo dopo fu colonizzato dai britannici
che civilizzarono il Paese e gli diedero una costituzione. Nel 1920 il Kenya fu
diviso in due, una parte governata dalla Gran Bretagna e l’altra, sulla costa,
dal sultano di Zanzibar. Nel 1951 ci fu il grande massacro dei Mau Mau. Questi
si erano ribellati al governo britannico perché i coloni avevano le terre
migliori, mentre i Mau Mau, che erano gli abitanti originari, non avevano nulla
e vivevano in condizioni precarie, costretti a lavorare come braccianti per i
bianchi. I morti “ufficiali” furono 8702; l’impero britannico si giustificò
dichiarando che anche trenta inglesi erano stati uccisi. Per ogni bianco morto
furono uccisi 290 Mau Mau. Inoltre pare che i morti siano stati molti di più.
Nel 1960 avvenne la pace, con l’inserimento nel consiglio legislativo di più
nativi e con l’introduzione di un regime elettorale nuovo. C’erano due partiti:
Kanu, guidato da Jomo Kenyatta, che chiedeva uno stato unitario e Kadu che
chiedeva uno stato federale; c’era anche il problema della fascia costiera,
appartenente al sovrano di Zanzibar, il quale, in cambio di una cospicua somma
annuale di denaro, rinunciò volentieri alla sua sovranità, mentre i due partiti
si accordarono per realizzare uno stato federale. Finalmente nel dicembre del
1963 il Kenya ottenne l’indipendenza e l’anno successivo fu nominato presidente
Kenyatta.
Il
neo presidente era della tribù kikuyu, quella che assorbì per prima gli usi e i
costumi britannici e che è presente in tutti gli ambiti della società. Il vero
nome del presidente era Kanawa Ngengy, ma fu soprannominato Kenyatta la cintura
che amava portare. Dopo aver ricevuto una educazione scolastica nella chiesa di
Scozia, lavorò a Nairobi come ispettore alle acque; -.qualche anno dopo si recò
a Londra per chiedere di istituire scuole kikuyu. Alcuni mesi più tardi si
laureò a Mosca, visse alcuni anni in Inghilterra, dove si sposò ed ebbe un
figlio. La sua grande passione era la politica, infatti diventò noto per i suoi
discorsi che denunciavano la politica britannica Nel 1946 tornò in Africa dove
fu soprannominato “Mlee”, cioè vecchio. nel senso di saggio e colto. Fu
accusato di aver spinto i Mau Mau alla rivolta e quindi fu imprigionato, senza
prove, per ben sette anni. La sua casa fu meta di grandi pellegrinaggi, ormai
tutti lo consideravano un leader africano. Dopo l’ascesa al potere di Kenyatta
molti bianchi fuggirono dal Kenya, alcuni rimasero ed impararono a rispettare
Mlee Kenyatta. Dopo di lui, nel 1978, è stato eletto Moi come presidente ed è
in carica tuttora.
Un
problema del Kenya è la presenza di molte tribù (quaranta), tra cui kikuyu,
luo, kisii, masai, swahili, giriama. A parte i swahili, che si trovano sulla
costa, le altre sono popolazioni rurali. La lingua è il kiswahili ufficiale) e
l’inglese, che è molto parlato. Alcuni keniani addirittura parlano tra loro
solo in inglese. Le religioni sono svariate: animisti, musulmani, cattolici,
protestanti
Io
sono nata nella città di Malindi, sulla costa, nel lontano 1984. Sono cresciuta
con le mie cugine e con mia madre. Mio padre è italiano, quindi stava a Livorno
per lavoro e ogni tanto veniva a trovarci. Mi indirizzarono allo studio del
Corano, che non riuscii ad apprendere. All’età di tre anni venni in Italia con
mia madre. A quattro anni fui mandata all’asilo per imparare l’italiano. A
cinque anni cominciai le elementari e la mia carriera scolastica è continuata
bene fino ad oggi che ho quattordici anni e mezzo e sono in seconda superiore
(liceo linguistico). Da grande sogno di fare la hostess e poi a trent’anni di
farmi una famiglia. Non ho avuto una vita di stenti e di avventure, fortunatamente,
a parte le piccole divergenze con i miei genitori. Sono felice della mia vita,
anche se ancora agli inizi, spero di ottenere di più, sempre di più...
S.
(Italia-Kenya)
Seconda Lettera
Forse, per
conoscerci meglio, è bene che ci raccontiamo delle storie di vita vissuta
perché attraverso di esse le idee si fanno evidenti, senza bisogno di lunghe spiegazioni. Ti racconto di
come a casa mia, quand‘ero ancora bambina, si accoglievano gli ospiti.
C’era una
zia che aveva il compito di preparare la stanza e il letto per chi veniva da
noi; spesso si trattava di parenti. Io l’accompagnavo su in soffitta, dove
c’era un armadio che conteneva lenzuoli di canapa (un tessuto un po’ ruvido
molto usato in quei tempi di dopoguerra) tutti ben piegati e profumati di
lavanda. La zia sceglieva con cura e con lentezza lenzuola e federe e poi
scendeva al piano inferiore dove si trovavano le camere destinate agli ospiti.
In quell’occasione aiutavo come potevo, stendevo per bene le lenzuola sul letto
mentre respiravo quell’aria di attesa gioiosa che rendeva più allegra e serena anche la zia, almeno così mi
pareva. C’era forse, in quei gesti
antichi e premurosi; l’accettazione dell’ospite considerato “sacro” sia dalla
tradizione contadina che da quella cristiana. Penso alle pagine bibliche dove
si possono leggere episodi in cui sotto la veste di un ospite di passaggio si
nasconde invece un angelo, un messaggero di Dio.
Quando venivano
a trovarci dei parenti o degli amici l’ incontro si svolgeva in giardino, in un‘atmosfera
rilassata, leggera e senza fretta. Noi ragazzi eravamo ammessi a questi
incontri ma dovevamo stare tranquilli e per lo più in silenzio. A me non
dispiaceva affatto, anzi in questo modo potevo capire meglio gli adulti e farmi
un‘idea di come ci si doveva comportare in certe situazioni. Parecchi anni più tardi; da adulta, mi capitò
di ritornare alla casa delle zie in compagnia di una coppia di amici: ricordo
ancora il silenzio rispettoso delle vecchie zie sedute in giardino,
accoglievano nella loro immobilità senza tempo le parole e i gesti dei miei
amici. Era il mistero dell‘altro che in qualche modo veniva riconosciuto, in
questa discrezione: uno spazio, un ascolto rispettoso. Poi; quando qualcuno
lasciava la nostra casa, le zie lo accompagnavano fin sulla soglia e da lì
salutavano con un timido sorriso.
Non so come
da voi vengono accolti gli ospiti; se suscitano curiosità, attenzione e
rispetto, se ci sono modi particolari di accoglierli, se si fa festa, se si
prepara qualcosa di speciale per loro.
A proposito
di ospitalità vi racconto un episodio che mi è successo qualche anno fa e mi ha
fatto capire come l’essere accolti generi gesti significativi. Un nostro amico
marocchino aveva bisogno di ospitalità soltanto per alcuni giorni; così abbiamo
a sua disposizione la nostra camera degli ospiti, alla fine della sua presenza
in casa nostra, si è presentato con un regalo, un paio di lenzuola
matrimoniali. Ho compreso allora quale valore e quale significato avesse avuto
per lui questo nostro semplice gesto di accoglienza. Sono le culture più
antiche che conservano ancora gesti significativi; modi di esprimere
gratitudine che riflettono sentimenti profondi e genuini. Da noi ora, nelle
nostre città, nel nostro mondo occidentale, l’ospitalità ha poco spazio, spesso
è molto frettolosa, risente dei nostri ritmi di lavoro, della nostra mentalità
efficiente e di questo credo, purtroppo, che tu te ne sia resa conto. Non abbiamo
più “tempo da perdere”; per accogliere l’ospite occorre non avere l’orologio al
polso ma mettersi un po’ fuori del tempo, sapendo cogliere il presente in tutta
la sua ricchezza e le sue opportunità. Saper vedere il presente come un evento
che non si ripete più, un‘occasione unica.
Recentemente
ho letto un libro sull’ospitalità, il suo autore è Jabès, un pensatore morto
recentemente. Chiudo con una frase sua: “ospitalità, una parola di dieci
lettere. Di ognuna occorre avere cura.”
Una
insegnante del corso
Risposte
Venticinque persone in tutta la casa,
questa è l’ospitalità
Lei
mi ha dato oggi una lettera sull’ospitalità, mi è piaciuta molto perché in casa
nostra (quella dei miei genitori in Olanda) era molto importante l’ospitalità.
La
casa era ed è tuttora sempre aperta per tutti quanti ed ho ancora molto
rispetto per i miei genitori, di come accolgono le persone, sono sempre
disponibili e pronti per tutti. Per esempio, se noi stavamo mangiando e
qualcuno entrava, subito si prendeva un piatto, una sedia e questa persona
mangiava con noi. Quando entra una persona durante il giorno si dice:
“Vuoi
un caffè, un tè? Dai mettiti un attimo a sedere”. Mi ricordo una volta, c’era
stata una festa e c’erano parenti che venivano da lontano, 25 persone sparse
in. tutta la casa, su materassi a dormire.
Per me questa è ospitalità.
Natascia (Olanda)
Se potesse porterebbe anche il telefono
Quando
si accoglie qualcuno a casa nostra, un’amica, un parente, cerchiamo di “fare
figura” cioè di sembrare la classica famiglia modello. Questo per me è buffo...
per esempio, quando viene una mia amica a mangiare a casa mia o viene a
trascorrere il pomeriggio con me, mio padre diventa un’altra persona: si
preoccupa tre giorni prima di che cosa si deve mangiare, compra una nuova
tovaglia, mostra i piatti più belli. Mia madre invece porta qualsiasi cosa con
il vassoio, se potesse porterebbe anche il telefono.
È
bello mostrare le cose più belle all’ospite e onorarlo, ma le mie amiche non
sono Carlo d’Inghilterra!!! Spesso le mie amiche si sentono a disagio, ed anch’
io. A casa loro è tutto diverso, mi trattano come una di loro! Comunque penso
che molti genitori siano come i miei. Quando si ospita qualcuno a casa propria,
per cena o pranzo se desideriamo conoscerlo meglio o per uno spuntino alle
cinque se non teniamo molto alla persona, bisogna essere noi stessi; la
condivisione del pasto, che è il momento in cui tutta la famiglia si riunisce e
si racconta quello che è successo durante la giornata, è un momento sacro...
non si deve trasformarlo in un modo per sfoggiare la nostra ricchezza. A me
piace una calda e familiare accoglienza, quindi non devo interrompere il ciclo
quotidiano di casa.
In
Kenya, l’ospite è sacro; però, anche se è una nuova persona, viene introdotta
subito nella famiglia, cucina, lava, se è una donna, naturalmente; se è un uomo
è tutta un’altra cosa, l’uomo non muove un dito a casa propria, figuriamoci in
quella altrui… e la cosa mi irrita... ma lasciamo perdere. Concludendo ritengo
che l’ospitalità sia bella solo quando l’ospite non è a disagio, quindi
trattarlo senza troppi “fronzoli”, ma sempre con riguardo!!!
S.
(Italia - Kenya)
Offrire il pane come il tetto sopra la
testa
Tutti
i Paesi hanno i loro costumi e le loro abitudini. Anche noi abbiamo le nostre
abitudini riguardanti l’ospitalità. Non importa se una persona è ospite o
parente, sempre è il benvenuto. Quando queste persone entrano in una casa
subito si porta il servire tradizionale: acqua, zucchero, caffè, grappa per chi
ne vuole. Se è tempo di mangiare subito si porta l’ospite a tavola. Se è il
momento di dormire si offre all’ospite una camera e si prepara subito il letto.
Se qualcuno degli ospiti o dei parenti viene con un suo amico il comportamento
è sempre lo stesso. Queste persone si accettano come ospiti personali, benché
si vedano per la prima volta.
Voglio
narrare un episodio della mia famiglia. Nel
1992, quando è cominciata la crisi in Iugoslavia, mio fratello, sua moglie e i
suoi bambini, la sorella della moglie e la sua figliola sono scappati dalla
Bosnia, e tutti quanti sono venuti a casa mia. Sono vissuti nella mia casa per
quasi sei mesi. Quando sono venuti non avevano niente. Soltanto la roba che
avevano addosso, nient’altro. La mia famiglia ed io abbiamo aperto la nostra porta
e i nostri cuori. Abbiamo dato tutto quello che si può dare per aiutare,
consolare, per non farli sentire abbandonati. Provi ad immaginare 12 persone
nella sua casa, senza niente, affamati, addolorati, perduti di se stessi. Dopo
sei mesi, quando si sono sistemati, hanno trovato lavoro e casa per abitare
normalmente e cominciare daccapo. La mia famiglia ed io abbiamo dato loro tutto
il possibile per aiutarli, cominciando dalle cose semplici di cucina, le
lenzuola, le coperte, gli asciugamani, roba per vestirsi, proprio tutto.
Non importa in che parte di questo
mondo si vive, bisogna aiutarci con cuore e amore, offrire il pane come il
tetto sopra la testa.
Miriana (Iugoslavia)
No importa la raza ni el color de la piel, ama todos como
hermanos
Anche
se ero molto piccola mi ricordo quando i miei genitori mi parlavano di quanto
importante e speciale doveva essere l’accoglienza e il ricevimento degli
ospiti. Mi ricordo anche, da quanto ci avevano insegnato, il significato della
parola ospitalità che per noi, i miei fratelli ed io, divenne sinonimo di
attenzione e rispetto; addirittura la usammo inventando un gioco, il gioco
dell’ospitalità. Era il più giocato da noi bambini, consisteva nel fatto che
uno di noi faceva la parte dell’ospite, e gli altri degli ospitanti, davamo
così all’ospite tutte le attenzioni e le cure che eravamo abituati a dare a
quelle persone che per necessità o motivi vari si fermavano in casa nostra.
Tutte le volte, ed era molto spesso, che avevamo degli ospiti in casa mi ricordavo
una frase, una frase che diceva così “No importa la raza ni el color de la piel, ama
todos como hermanos y haz el bien”.
Nel
mio Paese gli ospiti vengono accolti in maniera molto particolare; in primo
luogo li facciamo sentire come nella loro casa, gli offriamo il meglio che
abbiamo e li trattiamo come un membro della famiglia.
Non
dimenticherò mai quei dodici mesi in cui, per motivi di studio, dovetti essere
ospitata in casa di una giovane coppia. Sapendo bene che ero lontana da casa e
dalla mia famiglia; questo non provocò in me alcuna difficoltà grazie a queste
persone, che mi dettero la possibilità di sentirmi non soltanto come un ospite
ma addirittura un membro della loro famiglia. Tante furono le attenzioni che mi
dettero che fin dai primi giorni ebbi l’impressione non di convivere con degli
estranei, ma di trovarmi a contatto dapprima con veri e propri amici per finire
poi per considerarli come parenti. Quando lasciai quella casa mi parve di
averci vissuto da sempre e gli abbracci di addio suscitarono in tutti lacrime
di vero affetto.
Gloria (Paraguay)
Il tempo passato con loro era il più
importante
Anch’io
ho una bis-zia che ha insegnato a me tante cose: come pulire la casa, lavare i
panni, ricevere gli ospiti nella casa e anche come essere una buona ospite.
Penso che lei mi ha insegnato in un modo più antiquato di quello che è la norma
negli Stati Uniti. Loro abitano in campagna, hanno una fattoria dove la mia
famiglia ha abitato per tanti anni. Io stavo lì con loro ogni estate nella mia
adolescenza. Le zie avevano sempre ospiti come me per tutta l’estate, qualche
altro cugino per pochi giorni o i vicini per cena o per prendere un caffè.
Mia
zia diceva sempre: “gli ospiti hanno bisogno di sentirsi comodi come nelle loro
case”. Ricordo la zia al tavolo con i vicini. Loro bevevano il caffè e
chiacchieravano per ore, ma mai sentivano
Ora
negli Stati Uniti non è più così come prima. Le persone sono sempre di fretta,
non hanno tempo per gli ospiti. Per
stare insieme per cena o per prendere un caffè vanno abitualmente fuori di
casa: al ristorante. Anche i ristoranti non sono come qui, i proprietari
vogliono che la gente mangi e che poi vada via, così possono servire più
persone e incassare più soldi. Allora anche queste riunioni sono fatte in
fretta. È un peccato, ma sembra che
nessuno abbia tempo per divertirsi con gli amici con calma. Tutta la vita è
fatta in fretta; non c’è tempo per vivere.
Antonia (U.S.A.)
L’ospitalità è il vero spirito che
unisce gli uomini e li fa sentire fratelli
Da tempo e dovunque era stato annunciato con manifesti,
volantini e comunicati radiofonici il limite del territorio che sarebbe stato
sommerso dalle acque destinate alla formazione del grande lago artificiale che
avrebbe fornito le acque alla grandiosa centrale idroelettrica. L’esodo delle popolazioni del posto si
presentò fin da principio come un vero e proprio dramma. Avevamo notizie di
piccole comunità che si ribellavano ai militari incaricati di far rispettare
con le buone o con le cattive l’ordine di evacuazione. Alcuni, trasferiti con
la forza, tornarono e piansero sulle ceneri delle vecchie case che, giusto per
evitare che gli abitanti rimanessero con la forza, erano state bruciate dai
militari. Questa vera tragedia diventò per gli abitanti della mia città, che
sapevano non sarebbe stata sommersa dalle acque, l’argomento di maggior
importanza. Fu così che per suggerimento di alcuni membri della comunità fu
deciso di fare quanto di meglio potevamo per dare aiuto a quelli che si
sarebbero trovati dall’oggi al domani senza niente. La nostra non era una città
ricca, i suoi abitanti erano per lo più agricoltori e piccoli commercianti,
però tutti disponevano di una buona casa e tra i servizi pubblici avevamo un
piccolo ospedale, che con una discreta scorta di medicine, vaccini e
attrezzature varie rappresentava una buona garanzia per chiunque si ammalasse o
fosse vittima di qualche incidente.
All’ingresso della città sul cammino principale d’accesso
primeggiava la "alcaldia" davanti alla quale normalmente sostava il
Tenente con l’uniforme ben stirata e gli stivali tirati a lucido. Fino ad
allora il suo compito era stato quello di osservare se un estraneo di passaggio
poteva o no essere il così detto tipo sospetto. In quei giorni il suo compito
fu tutt’altro. Quelli che passavano davanti a lui erano nuclei familiari che
con pochi stracci e tanti fagotti addosso passavano di lì lasciandosi alle
spalle un passato che le acque avrebbero sommerso per sempre e guardando avanti
in cerca di un futuro che neppure avevano avuto il tempo di immaginare. Nella ”alcaldia”
era stato preparato, per così dire, un posto di accoglienza e di ristoro. Quelli
che di lì passavano senza meta e sentivano il bisogno di rinfrancarsi,
sostavano e potevano consumare un pasto caldo. Era il momento favorevole a una
rapida intervista nella quale la risposta più frequente era un semplice “non
so” che obbligava ad offrire qualcosa in alternativa.
Mio fratello ed io vivevamo con il babbo e la mamma in una
casa che per noi era spropositatamente grande, così immediatamente comunicammo
all' alcalde che eravamo disposti ad ospitare anche una famiglia di esuli.
L’opportunità non si fece attendere. Una mattina con il sole già caldo ed un
calore quasi soffocante ero seduta sotto l’ombra di un vecchio albero, quando
vidi entrare nel giardino l’alcalde in persona e sostare davanti al portone un
gruppo di persone, adulti e tanti bambini. Afferrai al volo la situazione e
immediatamente andai incontro all’”alcalde”. Siccome sapevo già quello che
veniva a propormi senza neppure ascoltare le sue parole risposi meccanicamente
“Sì, va bene... non ci sono problemi...”. Con la mano l'alcalde fece cenno al
gruppo di avvicinarsi e quando ci vide tutti attorno, rivolgendosi a quella
gente taciturna e incredula, disse loro semplicemente: “Qui vi troverete bene
perché starete con gente buona.” Mi salutò lasciando i saluti per i miei
genitori, si ricordò anche di mio fratello dicendomi: “Dì a Dani che ripari il
fanale della moto, perché di notte senza luce è pericoloso viaggiare.” Quando
mi guardai intorno e il mio sguardo vide la realtà, confesso che fui aggredita
da un senso di sgomento. Si trattava di ospitare una coppia di sposi con due
persone anziane, che risultavano poi essere i genitori della signora Marta e
otto ragazzini che in fila formavano il profilo di una scala. Tra i fagotti che
in ordine sparso coprivano quasi totalmente il marciapiede davanti alla porta
principale di casa, ne spiccava uno per così dire un po’ più accuratamente
preparato e accomodato in una cassettina di quelle usate per
Quel giorno lavorai quanto non avevo mai lavorato in vita
mia. Marta mi aiutò tutto il tempo e in poche ore ci sentimmo già amiche. I
ragazzi tutti fecero ognuno la loro parte. Alla sera tutto era pronto tutti
mangiammo abbondantemente e a ciascuno un comodo letto assicurò una notte di
meritato riposo. Forse l’unica che non dormì, fui io, rimasi per ore
prigioniera di un pensiero e assillata da mille domande. Svanirono i pensieri e
incontrai ogni risposta all’alba quando affacciandomi al balcone vidi i miei
piccoli ospiti camminare sorridenti per il giardino. Quando scesi, Marta aveva
già fatto colazione con gli altri e aveva lasciato a parte un vassoio per me.
Parlammo molto quel giorno e i giorni che seguirono. Per me non furono mai
degli ospiti ma amici o forse parenti. I ragazzi finirono per sembrarmi tanti
fratellini minori. Marta e suo marito come fratelli maggiori e gli altri, che
tutti chiamavano “Nonni”, finii anch’io per chiamarli Nonno e Nonna.
L’ospitalità comincia come un gesto di fratellanza, di
solidarietà e quasi appare come offerta di semplice aiuto a un bisogno. La vera
ospitalità è invece il vero spirito che unisce gli uomini e, al disopra di
tutti e di tutto, li fa sentire fratelli.
Luisa (Paraguay)
Da noi
un ospite è un angelo
L’ospitalità da noi è considerata molto importante, da essa
si può vedere l’amore che le persone hanno verso chi si presenta alla loro
casa. Da noi si offre sempre un regalo all’ospite quando va via perché, come
dice la lettera, da noi un ospite è un angelo che, dopo la sua partenza, lascia
a noi le sue benedizioni. Ma in particolare voglio bene agli ospiti e ricordo
che quando ero piccola davo ai nostri ospiti un mio giocattolino; così ero
sicura che non mi avrebbero dimenticata.
Marta (Messico)
Terza Lettera
Vorrei
parlarti di un’altra differenza, una differenza che può non apparire tanto
rilevante, ma che denota invece una diversità di tradizioni e di abitudini
importanti e significative. Alludo al cibo, alla sua varietà e al suo
significato particolare. Spesso un certo piatto, un certo sapore, può
richiamarti in modo immediato la tua terra d’origine, la tua famiglia, una
persona cara. Anche a me succede; quando raramente mi capita di passare per il
Paese dove sono nata, acquisto il pane locale e ciò mi procura gioia e mi
riporta a ricordi di tempi passati. Quando ero bambina, una prozia, sorella
della nonna materna, faceva il pane in casa e poi lo cuoceva in un forno a
legna. Il ricordo di quella lunga lavorazione, di un pane che aveva una forma,
una fragranza, un sapore particolari, mi richiama un passato legato a cose
buone ed essenziali più semplici. Quand’ero piccola, dietro la nostra casa
c’erano tante piante da frutto e un orto ricco di verdure di ogni tipo; i
sapori di allora sono per me indimenticabili. A quel tempo erano poco diffusi i
concimi chimici e quasi tutto, perciò cresceva seguendo ritmi più naturali
certi profumi certi sapori richiamano alla mente un mondo contadino in cui la
natura era più intatta e più rispettata.
Passando ai
giorni nostri, in Toscana e altrove avrai notato tante piante d’ulivo, da cui
si ricava l’olio d’oliva, condimento base di molti piatti della cucina
italiana. Fino a pochi anni fa uno dei prodotti principali dell’agricoltura era
costituito dal frumento da cui si ricava la farina per la produzione di pane e
pasta, base principale della nostra alimentazione. La diffusa coltivazione
dell’uva, in tutt’Italia, consente infine la produzione di ottimi vini che
accompagnano quotidianamente i pasti di quasi tutti gli italiani. Questi
elementi base (pane, pasta, olio, vino) ci accomunano a molti altri Paesi del
Mediterraneo che hanno apprezzato e apprezzano tuttora certi prodotti della
terra, dando loro a volte un valore sacro (almeno alle origini). Gli antichi
Greci ritenevano l’ulivo una pianta talmente particolare da consacrarla a una
importante dea dell’Olimpo: Atena.
Il pane e il
vino costituiscono poi elementi essenziali per la religione cristiana che li
utilizza nella celebrazione della Messa. Per noi italiani il mangiare assieme
rappresenta un segno di unità, di festa, di gioia; è un ritrovarsi con le
persone care di famiglia o con gli amici.
Invitare una
persona a mangiare a casa propria rivela quindi una volontà di amicizia, un‘apertura,
un desiderio di condividere e di costruire un rapporto più profondo. Spesso i
giovani d’oggi si ritrovano assieme a mangiare una pizza in qualche locale
pubblico; ciò costituisce un bisogno di relazione e di contatto, ma l’invitare
qualcuno a pranzo o a cena a casa propria rappresenta un legame maggiore che è
riservato a pochi, qualcosa di te, della tua casa, della tua vita, del tuo
ambiente viene offerto all’altro; accetti che l’altro entri nei tuoi spazi nel tuo
territorio; non ne hai quindi paura, non lo vedi come un invasore, come
qualcuno da distanziare e da escludere.
Essere
seduti attorno alla stessa tavola ti apre alle confidenze, al dialogo,
all’ascolto, all’incontro. Sei d’accordo? Anche per voi è importante prendere
il cibo assieme? Anche per te certi cibi certi sapori sono significativi? A che
cosa ti fanno pensare? Anche per te il cibo costituisce un legame con la tua
famiglia e la tua terra?
Per
concludere dirò che con molto piacere ho assaggiato a volte piatti tipici
peruviani, libanesi o marocchini. Accettare quei cibi è stato come accettare
più pienamente le persone che me li offrivano, il loro mondo, i loro gusti, le
loro tradizioni. È bello quando questo gesto non si riduce a un gesto di moda facile,
ma quando diventa relazione, amicizia, scambio vero fra persone.
Una
insegnante del corso
Risposte
Basta chiudere gli occhi, lasciar
volare la mente e sentire il profumo di questo pane
Come
tutti i Paesi di questo mondo, anche noi in Iugoslavia abbiamo i nostri piatti
tradizionali. I piatti che si usavano per diverse feste. Le feste che sono una
tradizione da anni, da secoli. La festa di Natale, di Pasqua, dei santi della
famiglia, del matrimonio, del compleanno ecc. Questi piatti sono diversi e
dipendono dalla stagione.
Per
Natale si preparano due piatti che si chiamano “sarma” e “podvarak”. Sarma sono
una specie di involtini di cavolo, ripieni di carne, cipolla e riso. “Podvarak”
è un piatto che si fa con il cavolo tagliato a pezzi, con cipolla e carne
secca. Questo piatto a casa mia si fa anche per la festa di San Michele
Arcangelo, il 21 novembre. È un piatto tipico per l’inverno. In primavera e in
estate si fa un altro piatto con il cavolo fresco, si chiama “bosanski lonac” o
pentola di Bosnia. Si usa del cavolo fresco tagliato a pezzi grossi, tanta
cipolla, carote, una costola di sedano, spezzatino di carne, pomodori,
prezzemolo e sale, olio, poca acqua e un bicchiere di vino bianco; deve cuocere
piano piano. Un altro piatto tipico del nostro Paese sono i fagioli al forno,
si chiama “prebranac”. Questi piatti si mangiano con tante insalate. Una
speciale è “lucena paprika” o peperoni con aglio, prezzemolo, olio, sale,
aceto. Ci sono anche tanti dolci e torte. Con tutti questi piatti c’è anche un
pane diverso che si fa con la farina di granturco e si chiama “proja”. Ha un
odore unico. Basta chiudere gli occhi, lasciare volare la mente e sentire il
profumo di questo pane.
Dovunque
tu vai questi profumi ti seguiranno. Tutti questi piatti sono le nostre radici
che porti con te dovunque vai.
Miriana (Iugoslavia)
Identificare ogni posto con il suo cibo
Anch’io
penso che il cibo diverso costituisca una differenza fra me e te, però secondo
me questa differenza è motivo di riconoscimento della mia identità e della mia
cultura e perciò di ricchezza personale. Anch’io ho bei ricordi in relazione al
cibo; ricordo che quando ero piccolissima mio nonno d’estate portava a tutti i
nipoti una torta bianca (fatta di zucchero mi immagino) per fare merenda.
Questo era sempre motivo di gioia. Poi se non c’era la torta ci portava
“churros” (dolci fritti tipo “frate”) o patatine fritte. Nella casa dei nonni
ci incontravamo tutti, era una villa grande con un cortile pieno di piante e di
spazio per giocare. Morto mio nonno questa bella tradizione sparì, forse perché
era troppo difficile mangiare quelle cose che ti ricordavano la persona che non
c’era più. Dopo un po’ di tempo, quando eravamo già adolescenti, mio padre ci
ha stupito un giorno portando la merenda “del mio nonno” e recuperando un bel
ricordo. D’altra parte, da quando sono qui in Italia mi sono resa conto che mi
piace identificare ogni posto con i suoi sapori.
Di
solito quando sento mia madre al telefono le chiedo qualche ricetta che ( noi
facciamo usualmente a casa. Un giorno mi è venuta la voglia di mangiare una
zuppa spagnola (di quelle che devono cuocere un sacco di tempo nella pentola) e
le ho chiesto
Rachele (Spagna)
I piatti possono sembrare strani e
insensati, ma se li assaggiate vi delizieranno
Nel
mio Paese, il Kenya, il cibo è molto differente da qua. Prima di tutto, la
mattina si mangia poco latte o tè con brioches locali, pan carré con burro e
marmellata. A mezzogiorno invece si mangia molto di più; solitamente si cucina
un piatto solo ma molto sostanzioso. Essenziale è il riso, accompagnato da
sughi deliziosi o cucinato con carne e patate, il “pilao”, cucinato solitamente
per occasioni speciali e il venerdì; si può avere anche riso cucinato con
verdure e accompagnato dal pesce.
Molto
usata è anche la polenta di farina bianca, accompagnata da carne, pesce fritto,
verdura. Il pane non è molto usato, al suo posto ci sono i “chapati” e i
“tanduri”, focaccine mangiate insieme alla carne, al pesce, a sughini vari e
con i fagioli al latte di cocco.
Quando
arrivano gli ospiti, allora si preparano i “samosa”, fagottini di carne e
cipolla, i “cababu”, polpette di carne piccole e molto piccanti, “mschakiki”,
carne speziata alla griglia, il pollo al marsala, esageratamente piccante, i
“bagia”, frittelline di lenticchie o di patate, i “mahambri”, una specie di
brioches vuote dentro, a forma di triangolo, e tanti altri dolcetti fra cui il
dolce alle uova.
Sono
usate le spezie e il peperoncino in gran quantità; a differenza di qui, si
cucina essenzialmente con il carbone... I piatti possono sembrare strani ed
insensati, ma se li assaggiate vi delizieranno.
Selima (Kenya)
Una
tavola imbandita unisce e rallegra
E
certo che il modo di mangiare segna una notevole differenza fra i diversi
popoli. Il cibo è da considerarsi una vera e propria tradizione per cui non è
raro sentire a tavola un succedersi di commenti pro o contro determinati
piatti. Sappiamo che alla gente di origine araba non è permesso mangiare carne
suina, altri popoli non mangiano carne di vacca e quello che per tutti è il
pane quotidiano è profondamente differente da una parte all’altra del mondo.
Sembrerebbe
che le differenti maniere possano rappresentare un motivo di divisione fra
popoli diversi, mentre è sicuramente certo che niente di meglio di una tavola
imbandita unisce e rallegra tutti i commensali. Personalmente devo ammettere di
avere incontrato alcune perplessità davanti a un piatto del quale neppure
conoscevo gli ingredienti, al punto di dover fare uno sforzo di volontà per
ingerire il primo boccone.
Ora
però posso affermare con tutta sincerità che la cucina italiana è veramente
buona. Ciò non toglie che venga più volte assalita dal desiderio di
riassaporare un piatto tipico del mio lontano Paese e farlo assaggiare ai miei
parenti ed amici italiani. Così penso un giorno di celebrare una festa
familiare proponendo a pranzo un “asado alla braza”, “tallarines” con pollo, la
“sopa paraguaya” e tanti altri piatti seguiti da un delizioso “postre” a base
di frutta tropicale.
Forse
non a tutti potrebbero piacere certe mie specialità, però sono sicura che, come
sempre, uniti a tavola le ore trascorrerebbero felici e con allegria per tutti.
Gloria (Paraguay)
Il
miglior piatto di qualsiasi pranzo è il sorriso dei commensali
Ero
appena arrivata in Italia che già mi sentii travolta dagli obblighi derivati da
inviti, prese di contatto con amici e familiari che ripetutamente esternavano
il desiderio di conoscermi o di rivedermi. La conversazione di approccio
terminava invariabilmente con un invito a pranzo o a cena. Confesso il disagio
nei miei primi pranzi in Italia: tutto mi sembrava impossibile e non incontravo
mai la certezza nell’uso delle posate e rimanevo addirittura sconvolta al
momento di dare giudizi sui sapori e i gusti dei cibi e delle bevande. Ricorderò
sempre quando, assaporando un boccone di cinghiale arrosto, a una zia che volle
chiedermi un parere al riguardo dissi, tra le meraviglie di tutti, che mai fino
ad allora avevo assaggiato un “cavalì tan gustoso”.
Da
quel momento dovetti così raccontare quelle che ancora oggi continuo a chiamare
“le nostre usanze”. Stupendo i diversi commensali descrissi, con la massima
abbondanza di dettagli, le strepitose riunioni gastronomiche che in Paraguay si
celebravano con qualsiasi pretesto e riunivano famiglie, parenti, amici e
membri della stessa comunità. Ricordo che dovetti descrivere minuziosamente
piatti tipici come “asado alla parrilla”, “sopa paraguaya”, “bori bori”, “caldo
ava”, “chipa so’o” e tante altre specialità gastronomiche sudamericane. Lo
stupore generale toccò il culmine quando cominciai a parlare o, per meglio
dire, mi accinsi a descrivere i gusti e la composizione dei dessert.
Naturalmente tutti o quasi composti a base di frutta tropicale.
Qualcuno,
forse tra i più golosi, dovette sentirsi l’acquolina in bocca quando descrissi
il sapore del “dulce de mani”, e del “dulce de mamon y avacate”; a commento
generale mi fu posta la domanda: allora tu troverai difficoltà ad abituarti al
nostro sistema di mangiare e ai nostri cibi? Non trovai miglior risposta di un
appassionato elogio ai piatti tipici italiani menzionando, con abbondanza di
elogi, tagliatelle, tortellini, lasagne, pesci fritti e altro. Ricevetti
applausi quando, portando il bicchiere alla bocca, qualificai il vino toscano
come il miglior vino del mondo.
A
tavola di certo non mancano mai le polemiche su gusti, sapori e usanze, però
sempre al momento del caffè tutti ci troviamo concordi: niente è più bello che
riunirci intorno ad una tavola imbandita dove i parenti rinnovano i loro
vincoli di sangue, gli amici si sentono più amici e i conoscenti sentono come
la necessità di affratellarsi agli altri. Credo che il miglior piatto in
qualsiasi pranzo sia il sorriso dei commensali, condito da sguardi carichi di
sentimenti nobili e sinceri.
Luisa
(Paraguay)
Quarta Lettera
Oggi voglio
parlarti degli anziani, in particolare di quale relazione ci sia fra loro e la nostra società. Spesso, forse, ti
sarai meravigliata del gran numero di persone anziane presenti nel nostro
Paese. Non sempre nel passato è stato così. La medicina moderna, le migliori
condizioni di vita e di alimentazione hanno consentito un notevole prolungamento
della vita umana; in Italia la speranza di vita media è di circa ottanta anni
per le donne, per gli uomini di qualche anno meno.
Un altro
aspetto che spesso meraviglia molte persone che provengono dal Sud del mondo è
la presenza, nei Paesi e nelle città, di molte case di riposo che costituiscono
una specie di pensioni-alloggio destinate esclusivamente a chi è avanti con gli
anni. Ciò può scandalizzare quanti hanno altri modelli culturali, altri modi di
vivere, altri tipi di relazione con gli anziani. Non voglio tentare di
giustificare 1€ situazioni presenti nella nostra società, ma vorrei farti
comprendere come e perché certi fenomeni si sono potuti verificare.
Quand’ero
piccola io, anche nella mia famiglia c’erano persone anziane e per di più malate.
Ricordo che una zia, colpita da ictus cerebrale e completamente priva di
autosufficienza, per anni venne curata ed assistita dalle sorelle e dai nipoti Ma
la nostra era una grande famiglia, composta da tante persone disponibili, non
impegnate in lavori fuori casa; il loro tempo era dedicato completamente alla
famiglia, alle sue esclusive necessità. Era considerato assurdo e inconcepibile
abbandonare uno di casa in mano ad altri, il peso della situazione non era però
addossato esclusivamente su di una sola persona, ma equamente condiviso da
molti che in questo modo riuscivano a gestire bene
Ma in questi
ultimi trenta-quarant’anni, in Italia la famiglia ha subito decise
trasformazioni; non esistono quasi più le vecchie famiglie allargate di tipo
patriarcale- contadino. Ormai i nuclei sono ridotti a genitori e figli. Spesso
negli appartamenti moderni non c’è spazio per altre persone, come ad esempio i
nonni.
D’altra
parte, frequentemente la vita di oggi costringe entrambi i genitori al lavoro
esterno, non consentendo così di poter tenere in casa un anziano malato, bisognoso
di continua assistenza. Può succedere a volte che i figli siano costretti a
mandare in una casa di riposo un genitore malato oppure, nel migliore dei casi,
a lasciarlo a casa sua assistito continuamente da persone estranee alla
famiglia. Si tratta comunque, in quest’ultimo caso, di una situazione più
accettabile per un anziano che così non abbandona il suo ambiente, la sua casa,
le sue abitudini.
Spesso si
dice che nelle società contadine i vecchi erano più considerati e rispettati e
che nella nostra società gli anziani non contano perché non producono più e
quindi costituiscono un peso sempre più gravoso per la società nel suo
complesso. Fino a che sono autosufficienti i vecchi vengono tollerati e perfino
accettati se si rendono utili in qualche modo; quando perdono l’autosufficienza
fisica o presentano disturbi mentali vengono emarginati, poco considerati, mal
sopportati. Si tratta di una situazione che riguarda un p0’ tutti gli anelli
deboli della nostra società: i disabil6 i malati mentali, i poveri. Siamo in
una società che ci vuole giovani, efficienti; produttivi, sani di mente e di
corpo.
Chi è
diverso molte volte, nei fatti; è “tagliato fuori” considerato come uno scarto,
non valorizzato, mal sopportato. A questo punto diventa ancora più necessario recuperare
il senso autentico della vita, partendo proprio dai meno garantiti. Comportarsi
da esseri umani significa accogliere, comprendere, non trascurare, non
abbandonare ma stare accanto.
Forse tu o
forse voi avete, in umanità, qualcosa da comunicarci Forse per voi la vita ha
altri significati, forse la compassione, la vicinanza, la condivisione
rappresentano ancora valori importanti e irrinunciabili Raccontami qualcosa in
questo senso. Grazie. Aiutiamoci a non perdere gli aspetti migliori dell’essere
umano; abbandonando e non considerando i più deboli condanniamo
irrimediabilmente tutti noi, privando di ricchezza, di unità e di senso la vita
intera.
Una
insegnante del corso
Risposte
Nel mio Paese non ci sono tanti anziani
Vorrei
dirle che nel mio Paese non ci sono tanti anziani perché molte persone non
raggiungono l’età della vecchiaia, però ci sono degli anziani che generalmente
vengono portati in una casa di riposo mentre altri, ma pochi, restano in
famiglia e vengono trattati molto bene.
Vorrei
raccontarle che nel mio Paese, il Messico, quelli che lavorano devono pensare
da soli alla loro vecchiaia perché quando finisce il rapporto di lavoro, il
lavoratore non riceve nessuna pensione e, se non vi ha pensato prima, si
ritrova senza niente e non sa come andare avanti.
Anche
la situazione degli handicappati è simile a quella degli anziani. Infatti la
maggior parte delle famiglie preferisce affidarli alle case di riposo.
Marta
(Messico)
Gli anziani rappresentano la sorgente
dalla quale abbiamo bevuto saggezza e amore
Quello
degli anziani nella nostra società è un argomento “caldo” di cui ultimamente si
discute molto. Se ne parla sì, ma si fa poco o forse si reagisce in modo
sbagliato.
Non
dobbiamo dimenticare che quegli stessi anziani di cui stiamo parlando sono i
nostri genitori che fanno parte di noi giovani o forse è più giusto dire che
noi facciamo parte di loro. Nel mio Paese c’è un detto: “Se vuoi che le persone
si comportino bene con te, in tale modo ti devi comportare anche tu con loro.”
Mi preoccupa non il fatto che i figli, costretti da certe circostanze, mandino
in casa di riposo un genitore bisognoso di continua assistenza, oppure lo
lascino a casa e paghino una persona per assisterlo, no, mi preoccupa ben
altro: la lontananza e l’abbandono nel senso affettivo.
Anche
nel mio Paese ci sono case di riposo e quando penso a queste persone là dentro
posso immaginare il dolore che molti di loro sentono. Loro hanno perso non solo
la loro giovinezza e salute, ma molto spesso anche l’affetto dei loro
familiari. Poche visite per poco tempo, poco amore, poco rispetto, poca
sensibilità. Gli anziani rappresentano il nostro passato, la nostra memoria, la
sorgente dalla quale noi abbiamo bevuto la saggezza, l’amore, l’affetto per
lunghi anni. E ora, per non perdere tutto questo, per salvare la nostra
dignità, facciamo loro vedere e sentire quanto gli vogliamo bene e che la loro
vita non è stata sprecata nel crescere figli come noi.
Villy (Bulgaria)
La felicità per un anziano risiede
nella certezza degli affetti
In
questo ultimo secolo che ormai sta terminando è cambiata molto quella che è
sempre stata considerata il fondamento della civiltà:
Però
la famiglia, con il cambiar dei tempi, sempre ha assunto aspetti diversi alterando
naturalmente i risultati delle sue funzioni. Di questo possiamo renderci
facilmente conto sfogliando un album di foto ricordo attraverso il quale
meraviglia il confronto fra noi moderni e i nostri antenati.
La
nonna sembra ancora giovane, così pure il nonno, però sono entrambi circondati
da quattro o cinque giovani che naturalmente rappresentano il frutto del loro
amore.
Per
questi nonni i figli erano una benedizione di Dio e rappresentavano la loro
vera ricchezza; oggi le cose sono un po’ cambiate, senza cercare, in una
inutile polemica, se in male o in peggio; la ricchezza di una famiglia viene
calcolata dalla quantità di elettrodomestici che hai nella casa, dal modello
dell’auto di cui disponi, dalla qualità dei mobili che arredano le tue stanze e
dal tipo di vacanza che potrai scegliere nel prossimo periodo. Nessuno si preoccupa
di chiederti quanti figli hai e nessuno ti chiede notizie di tuo padre, di tua
madre o del suocero e della suocera.
Sembra
proprio che il concetto di famiglia vada diminuendo in accordo col numero dei
suoi componenti. Così meno figli è uguale a maggiore libertà e per quanto
riguarda gli anziani il maggior problema è quello di dar loro sufficiente
autonomia e benessere.
Oggi
qualsiasi anziano può godere di una certa autonomia disponendo di pensione,
però il benessere non si può comprare come si compra un pasto quotidiano e un
alloggio dove vivere e riposare.
Il
benessere degli anziani è la presenza di affetti legati al passato e proiettati
nel futuro. Credo che la felicità per un anziano risieda unicamente nella
certezza degli affetti che lo mantengono legato ai propri figli e nel piacere
di vedere nei figli dei propri figli la proiezione di se stesso nel futuro
dell’umanità. La famiglia si compone di tre, difficilmente di quattro
generazioni, che io credo per nessun motivo dovrebbero concludersi in forma
separata. Per questo è auspicabile che mai ci sia per nessun motivo separazione
fra membri di una stessa famiglia indipendentemente dal fatto che differenti
condizioni fisiche o mentali, dovute all’età, possano determinare rapporti
diversi.
Gloria (Paraguay)
Esiste molta solitudine
In
questa breve lettera voglio manifestare quello che realmente penso. E certo che
la società lascia molto a desiderare soprattutto quando si tratta di persone
della terza età. La vita di queste persone sta intimamente in relazione con la
società nei suoi differenti aspetti. Quando gli anziani convivono con persone
estranee al proprio ambito famigliare, non c’è dubbio che soffrono un cambiamento,
ma nella misura in cui passa il tempo si adattano alla nuova situazione.
Generalmente
le persone che lavorano con anziani fanno parte della loro vita. Sono
considerati e accettati dalla società fino agli ultimi giorni della vita degli
anziani. L’autosufficienza rappresenta un vantaggio, se gli anziani sono
autosufficienti possono contare su se stessi, anche se in casa non sono soli.
Purtroppo però esiste molta solitudine per molti anziani.
Per
finire devo aggiungere che sono d’accordo che la società ha bisogno di persone
giovani, efficienti, in perfetta salute fisica e mentale, però credo
sinceramente che un poco d affetto e di comprensione basterebbe perché molte
persone anziane possano sorridere e sentirsi contente per lo meno in quei pochi
anni di vita che rimangono loro.
Olga (Perù) (traduzione dallo spagnolo)
Quinta Lettera
Come il tuo
Paese, che sicuramente possiede una storia che spero tu mi racconterai anche
l’Italia ha radici antichissime. Percorrendo le strade del nostro Paese avrai
notato certamente dei castelli in cima ad alcune alture, vecchi palazzi e
chiese antiche, rovine di templi, ponti e strade che hanno spesso migliaia di
anni. L’Italia ha una storia lunga e complessa. Roma, la capitale, ha quasi
tremila anni di storia; conserva anfiteatri romani, rovine di templi, archi di
trionfo di antichi imperatori, piazze, mercati e tribunali costruiti prima della
nascita di Cristo. Molto significativa ed interessante, se si parla dell’epoca
degli antichi romani, appare anche una cittadina, vicina a Napoli, che si
chiama Pompei. Fu sepolta circa 2000 anni fa dalle ceneri e dai lapilli di un‘eruzione
vulcanica; grazie a quell’evento possiamo ammirare nella sua completezza
un‘intera cittadina romana conservata quasi perfettamente, con le sue case popolari,
le sue ville, i suoi negozi, i suoi edifici pubblici i suoi teatri, le sue
terme. È veramente straordinario passeggiare per quelle strade lastricate,
visitare quelle case così ben conservate, ricche di affreschi dai colori
vivaci. E come un‘immersione in un mondo lontano.
Ancor prima
dei Romani, l’Italia era già abitata da popolazioni che avevano una loro
cultura e civiltà. Ti nomino ad esempio gli Etruschi, una popolazione che
abitava in Toscana e anche in altre zone d’Italia. Nella nostra regione molte
città sono costruite su antiche città etrusche; Volterra ad esempio conserva
ancora le mura di quell’epoca lontana. Anche nel Sud si possono ammirare opere
d’arte di immenso valore; a Paestum, vicino a Salerno, e ad Agrigento, in
Sicilia, si trovano templi greci pari in bellezza ad analoghe costruzioni
presenti ad Atene e in altre città della Grecia.
Molte città
toscane ebbero un grande sviluppo verso il 1200-1300 quando si ampliarono i
commerci della lana, della seta e di altri tessuti. Ognuna era gelosa della
propria indipendenza conquistata da poco; aveva leggi che tutti gli abitanti
erano tenuti a rispettare. In questo periodo, chiamato Medioevo, qui in
Toscana, Firenze, Lucca, Pisa, Siena ebbero il loro massimo splendore. Firenze
poi ebbe uno sviluppo ancora maggiore nei secoli successivi (1400-1500). Tutte
queste città hanno chiese, piazze e palazzi molto caratteristici e antichi. Nel
Veneto puoi ammirare una delle città più interessanti e particolari d’Italia,
Venezia, costruita su una serie di isolette della laguna e ricolma di tesori
artistici e ambientali.
Tutta
l’Italia è come un grande museo e le sue bellezze e ricchezze culturali
rappresentano un patrimonio di tutta l’umanità, non sono esclusivo possesso di
noi italiani che spesso forse non sappiamo apprezzare e difendere adeguatamente
ciò che si trova nel nostro territorio e che caratterizza il nostro passato.
Spesso queste lontane radici dànno Identità ad un popolo, lo rendono
orgoglioso, trasmettendogli il senso di appartenere a una terra e a una
cultura. Perdere questo legame è come pretendere di essere una pianta senza
radici, riducendosi ad individui senza storia, senza passato, perciò senza
prospettive e senza futuro. Credo che un‘opera d’arte, quale una costruzione,
una statua, un dipinto, possa suscitare in un' anima sensibile le stesse
sensazioni provocate da uno spettacolo della natura. L’armonia e la bellezza
destano sempre stupore e meraviglia. Si tratta di un linguaggio universale che
tutti possono comprendere e che in tutti fa emergere emozioni e sensazioni
particolari. Anche nel tuo Paese esistono città d’arte importanti? Le hai
visitate? Che impressione ne hai avuto? Da voi ci sono rispetto e considerazione
per le cose antiche? E viva in voi la memoria del vostro passato?
Una
insegnante del corso
Risposte
Qualcosa di eccezionalmente bello nelle
trame e nei colori di un tappeto tessuto a mano
Vivo
in Italia da poco tempo, sufficiente però per comprendere quanto bello sia
questo Paese, ricco di storia e appartenente ad una civiltà tra le più
importanti.
Ancora
non ho avuto il tempo di conoscere, visitandole direttamente, tutte le regioni
e le città più importanti dell’Italia, però dal poco che ho visto e da quello
che ho potuto apprendere leggendo e guardando la televisione, credo che questo
Paese rappresenti un vero e proprio patrimonio artistico e culturale
dell’intera umanità. Ogni città è simbolo e storia di epoche remote che ci
accompagnano fino ai tempi moderni. Abbiamo testimonianze dalla nascita
dell’impero romano fino ad oggi e molti reperti archeologici ci permettono di
conoscere civiltà ancor più remote. Tutto questo è veramente un patrimonio
storico e culturale che non appartiene solo al popolo italiano, è un patrimonio
di tutta l’umanità, nel quale specchiarsi e riconoscersi.
E
certo che in maggior o minor scala questa stessa cosa è valida per tutti gli
altri popoli del nostro pianeta. Personalmente non posso e non credo che potrò
mai dimenticare la mia origine americana. Per molti europei è comune associare
il concetto di America a quello di nuovo mondo. Per noi americani anche la
storia dell’America viene associata alla storia di civiltà antiche e
progredite. Sarebbe lungo e difficile parlare in forma esauriente dei Maya,
degli Aztechi e degli Incas. Questi popoli rappresentano le origini del moderno
popolo americano e l’attuale americano è il risultato della fusione di queste
antiche civiltà con quella europea che venne a colonizzare i vasti e ricchi
territori di quello che chiamarono il “Nuovo Mondo”.
La
vastità dell’America non ha mai permesso ai suoi abitanti la formazione di
enormi e duraturi imperi, anche perché non sorretti da grandi masse di
popolazioni che erano costrette a vivere prive di contatti tra di loro, anche e
soprattutto per le grandi distanze, le difficoltà geografiche e climatiche.
Però oggi l’America si va rapidamente formando e mostra al mondo intero nuovi
stati e nuovi popoli, ognuno dei quali manifesta una propria cultura e civiltà.
Mi
piacerebbe parlare più a lungo del mio Paese, il Paraguay, ma non è facile in
poco spazio e tempo far conoscere la storia de “los indios”: Guaranies, Ava, Quechua
e tanti altri che ebbero una civiltà scaturita dal diretto contatto con la
natura e seppero poi approfittare dell’insegnamento dei colonizzatori per
costruire cattedrali, città e palazzi nel mezzo delle loro selve più volte
definite inospitali. Oggi visitare una località sudamericana credo possa
davvero rappresentare per qualsiasi europeo una indimenticabile e meravigliosa
esperienza. Troverà qualcosa di eccezionalmente bello nelle trame e nei colori
di un tappeto tessuto a mano, come rimarrà estasiato ammirando l’immagine di un
santo scolpito in un pregiatissimo legno tropicale. Questo mio ipotetico
turista non potrà rimanere insensibile visitando i resti delle chiese e delle
case che costituirono le missioni dei gesuiti.
Anche
il nuovo mondo ha una lunga storia e un grande patrimonio artistico e culturale
che lo identifica, che sappiamo di non potere né dovere ignorare, né tanto meno
dimenticare.
Gloria (Paraguay)
Un’isola
di legno immersa in un mare di verde
Sono
nata in un piccolo Paese dell’Europa orientale, un Paese con una storia direi
un po’ sfortunata, come tanti altri in tutto il mondo. Per la gran parte della
sua esistenza la Bulgaria è stata dominata da diversi imperi: quelli dei
romani, dei bizantini e dei turchi. Forse per questo il sentimento nazionale e
il desiderio di prosperità nazionale sono stati da sempre così forti.
Il
mio Paese è situato nella penisola balcanica, è confinante a Nord con la
Romania, a Sud con la Grecia e la Turchia, a Ovest con la Serbia e la
Macedonia, a Est è bagnato dal Mar Nero. La Bulgaria fu creata nel 681 dopo
Cristo dall’unione delle tribù dei protobulgari con le popolazioni slave. Per
capitale del primo regno bulgaro fu scelta una località chiamata Pliska, oggi
famosa per i resti archeologici delle mura difensive e il grande palazzo reale.
Nel nono secolo i fratelli Cirillo e Metodio, allievi della scuola di Solun
(Tessalonica), furono accolti in Bulgaria dove tradussero la bibbia in
paleoslavo, crearono l’alfabeto cirillico e costituirono un gruppo di allievi i
quali, dopo la morte dei maestri, continuarono la diffusione dell’alfabeto.
Così per la Bulgaria cominciò un periodo di evangelizzazione.
Il
regno ebbe l’apogeo con la venuta del re Simeone (inizi del decimo secolo)
quando i suoi confini toccarono tre mari. Sottomessa più tardi dai bizantini
per quasi duecento anni, la Bulgaria tornò indipendente nel dodicesimo secolo,
ma alla fine del quattordicesimo cadde sotto il dominio turco per cinquecento
lunghi anni, nei quali lo sviluppo culturale ed economico si fermò, soffocato
dai tentativi da parte dell’impero turco di convertire i cristiani alla
religione musulmana.
Nel
1878, dopo vari tentativi rivoluzionari e con l’aiuto della Russia, la Bulgaria
ottenne la sua indipendenza. Con la prima guerra mondiale il Paese perse gran
parte della Tracia occidentale, che fu assegnata alla Grecia.
Nel
nostro territorio furono scoperti molti resti dell’antichissimo popolo dei
Traci che fu sottomesso dagli Ioni, popolazione della Grecia; la Bulgaria fu
poi conquistata da Filippo il Macedone che fondò Filipopolis, oggi Plovdiv, la città
dove sono nata. In seguito fu occupata dai Galli, dai Romani e dai barbari. Nel
dodicesimo secolo venne popolata dalle tribù slave; la storia successiva .è
quella che ho raccontato in precedenza.
In
Bulgaria sono state scoperte tombe ricche di affreschi e di utensili e il
famoso tesoro dei Traci che è stato esposto a Firenze nel 1998. Nel mio Paese
si possono ammirare anche i resti dei tempi dei romani, come per esempio
l’antico anfiteatro a Plovdiv, città famosa anche per il suo bellissimo centro storico,
dove sono conservate tutte le case e le strade come erano nel passato, formando
un vero museo all’aperto. Sono molto particolari e con una storia interessante
anche le città di Veliko Tarnovo (che fu capitale del terzo regno bulgaro, con
il suo palazzo reale sulla collina Zarever), Koprivstiza e Sofia, capitale
della Bulgaria dal 1978, nota per la chiesa sotterranea di Santa Petka (secc.
XIV-XV) e la basilica bizantina di Santa Sofia. Sono interessanti da visitare
anche i musei archeologico ed etnografico e la galleria nazionale d’arte.
Shipra,
un’altura vicina al famoso passo con lo stesso nome nei Balcani, è la montagna
dove nella seconda metà del XIX secolo ci fu la battaglia decisiva fra Turchi e
rivoluzionari bulgari che cambiò la nostra storia.
Oggi
in memoria dei caduti c’è una bellissima chiesa con le cupole dorate, simbolo
del coraggio dei difensori del passo i quali, dopo aver finito le munizioni,
usarono i sassi e dopo che ebbero finito anche questi buttarono dalla collina i
corpi dei compagni morti, pur di non cedere il passo che avrebbe impedito ai
Turchi di unire le forze del Nord e del Sud. In questo modo le truppe militari
turche, indebolite e divise dai Balcani e dai suoi difensori, subirono una
sconfitta da parte dei Russi passati dal Danubio.
Non
si può parlare della storia bulgara senza nominare anche il monastero di Rila
(sotto la protezione dell’Unesco) che ha avuto un grande ruolo nella cosiddetta
battaglia religiosa e culturale durante il dominio turco. È interessante e
particolare la sua costruzione, un’isola di legno immersa in un mare di verde.
Dietro le mura del monastero sono conservati antichissimi documenti e libri, e
il primo libro scritto in bulgaro, la storia slavo-bulgara. Sono conservati
anche utensili e macchine usate in tempi passati. Fanno parte del nostro
patrimonio artistico altri monasteri come quello di Batchkovo dell’undicesimo
secolo, quello di Troian ecc.
Nel
Novecento con i forti movimenti migratori nasce un sentimento complicato. A
quale terra apparteniamo? A quale cultura dobbiamo essere fedeli?
Penso
che è meglio non dimenticare da dove proveniamo, non dimenticare le nostra
storia e la nostra cultura. È il nostro passato e da quello dipende il nostro
presente e il nostro futuro. La storia e la cultura del nostro Paese in un
certo modo determinano il carattere e la propria personalità, danno un senso di
sicurezza e di appartenenza. Questo è un importante punto di riferimento che ci
aiuta a costruire solidi ponti verso altri Paesi e culture. E importante anche
la nostra capacità di vedere, conoscere e imparare, solo così possiamo
arricchire il nostro punto di vista e la nostra cultura.
Ogni
Paese ha una storia e un patrimonio culturale che merita di essere capito e
apprezzato. Bisogna ricordare le cose belle e le cose brutte della storia anche
per poter creare altra bellezza e per poter evitare di ripetere gli errori del
passato.
Villy (Bulgaria)
Sesta Lettera
Comunicare
fra noi puoi dire anche parlare di sentimenti, di amore, di affetti. È quasi
inevitabile quindi parlare di famiglia che è l’esperienza che ci accomuna
tutte, come figlie, come mogli, come madri, come sorelle. È un ‘esperienza
universale, apparentemente simile ma anche molto diversa sotto l’aspetto
sociologico, delle tradizioni delle usanze.
Da noi in
Italia, nel giro di alcune generazioni tante cose sono cambiate. Una volta,
nelle famiglie contadine, era il padre che comandava, spesso in modo molto
autoritario. I figli maschi erano ben visti e ben accettati perché
rappresentavano la continuità della famiglia. Inoltre avevano parecchi
privilegi, normalmente solo loro continua vano gli studi e, sia pure in minima
parte, arrivavano ad un diploma o ad una laurea; la figlia femmina era
considerata una futura casalinga, si sarebbe sposata e avrebbe avuto figli;
quindi frequentava la scuola il minimo indispensabile; l’importante era che
avesse una dote consistente di lenzuola, coperte, biancheria, e magari potesse
contare su un bel po‘ di soldi.
Sembra
passato tanto tempo da allora! Attualmente,
almeno in molte zone d’Italia, una donna è libera nella scelta del fidanzato,
del marito o semplicemente di un partner. Non esiste più la tradizione della
dote e le ragazze studiano e si laureano come e più dei coetanei maschi.
Sono ormai
rare eccezioni le famiglie in cui il padre-padrone comanda a suo piacimento sui
figli e sulla moglie. A questo proposito segnalo un interessante libro scritto
da Gavino Ledda, un professore universitario sardo ora sulla sessantina, intitolato
proprio “Padre padrone” che narra la vita dell’autore a cominciare da quando
all’età di sette anni il padre lo tolse violentemente da scuola per destinarlo
alla sorveglianza delle pecore; racconta di un padre che non tollerava alcuna
forma di distrazione o di divertimento e che spesso puniva il figlio con
violente bastonate.
Ora, anche
da un punto di vista legale, c ‘è parità fra i coniugi che devono decidere
insieme le scelte fondamentali della loro esistenza, dove abitare, come educare
i figli. Quasi sempre, inoltre, le famiglie sono costituite solo dai genitori e
qualche figlio.
Spesso la
moglie lavora fuori casa per necessità della famiglia (alti costi della vita) o
per scelta (desiderio di realizzare altri aspetti di sé oltre alla maternità),
con la speranza di poter avere in questo modo una autonomia economica reale.
Una volta la
donna che non lavorava all’esterno e faceva solo la casalinga poteva essere
maggiormente ricattabile dal marito, dato che si trovava in uno stato di dipendenza
economica quasi totale. Se non andava più d’accordo con lui spesso era
costretta a subire situazioni poco dignitose, umilianti e frustranti.
Attualmente
l’educazione dei figli non è più basata, almeno in gran parte, su forme di
autoritarismo o di violenza, ma su un certo dialogo.
Con questo
non voglio dire che non vi siano contraddizioni all’interno delle famiglie
attuale: situazioni di non comunicazione, di disagio e di frustrazione. Se da
una parte è l’amore che spinge generalmente due persone all’incontro, alla
convivenza o al matrimonio, non sempre quando queste decidono di formare una
famiglia e di avere dei figli conoscono profondamente se stessi e l’altro/a che
gli/le sta accanto.
Entrano
tante componenti in un incontro felice, l’aspetto istintivo, affettivo,
passionale è importante, ma forse è altrettanto importante l’essere autonomi e
differenti senza paura della propria solitudine esistenziale. Condivido quanto
dice, in maniera poetica, Gibran (uno scrittore libanese) parlando del
matrimonio: “Amatevi l’un con l’altra, ma non fatene una prigione d’amore.
Piuttosto vi sia tra le rive delle vostre anime un moto di mare ... Cantate e
danzate insieme e siate giocondi; ma ognuno di voi sia solo, come sole sono le
corde del liuto, sebbene vibrino di una musica uguale ... Ergetevi insieme, ma
non troppo vicini; poi che il tempio ha colonne distanti; e la quercia e il cipresso
non crescono l’una all’ombra dell’altro.”
Vicini e
distanti; come conciliare questi due opposti? Cosa ne pensi?A me sembra che
l’amore però debba farti diventare più te stessa e non renderti uguale
all’altro. Ognuno/a di noi ha un suo colore, un suo suono, una sua musica, un
suo pensiero, un suo sogno. L’importante è trovare l’armonia fra mondi diversi
e forse questa è la ricerca continua di una coppia che non intende spegnere
l’amore ma lo cura, lo rinnova, lo stimola, lo fa rinascere, perché rispetta la
differenza fra uomo e donna riscoprendola nel quotidiano, anche negli eventuali
conflitti.
Per quanto
riguarda i figli; non avendoli avuti non mi sento di affrontare il terna della
maternità. Anch’ io però sono stata figlia e quindi posso dire, nella mia
esperienza, ciò che di meglio mi hanno dato i miei genitori.
Che ai figli
vengano trasmessi i valori dei genitori; ciò in cui loro credono, è normale e forse
inevitabile. Ma tutto deve avvenire all’interno di una precisa convinzione: i
figli non possono essere nostre clonazioni; non possono essere nostri
replicanti, hanno una loro individualità, possiedono una libertà che li porterà
a percorrere una strada che sarà soltanto loro e che nessuno potrà percorrere
al loro posto.
Riconosco ai
miei genitori un rispetto per la mia libertà; non mi hanno impedito di
percorrere la mia strada, nonostante tendessero ad essere iperprotettivi e
ansiosi e la mia scelta non rientrasse perfettamente nei canoni tradizionali.
Amare vuol
dire non soffocare, ma lasciare che ognuno faccia la sua esperienza e respiri
l’aria che più desidera. Amare è essere vicini; rispettando l’unicità e
l’alterità dell’altro, anche di chi è carne della propria carne, sangue del
proprio sangue. Riprendendo ancora Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli..
Non vi appartengono, benché viviate insieme... Potete amarli ma non
costringerli ai vostri pensieri poi che essi hanno i loro pensieri... Voi siete
gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccate lontano “.
Quale
esperienza hai avuto come figlia? E quale esperienza con i tuoi figli? Sei
stata rispettata nelle tue scelte e educata alla libertà? Quale tipo di
rapporto hai instaurato con i tuoi figli? Che cosa rappresentano per te?
Una insegnante del corso
Risposte
C’è chi cerca di far diventare i figli
ciò che lui non è stato
Alla
mia età, quindici anni, il dialogo fra genitori e figli non è sempre facile,
anche se importante.
Parlo
molto con mia madre ma non le racconto tutto ed è giusto che sia così; secondo
me i genitori non sono amici del cuore con cui parlare liberamente di tutto,
per certe cose sono parziali e cercano di metterti in testa le loro idee
assurde.
Con
mio padre ho un rapporto bellissimo, ma poiché lui non è fatto per le
chiacchierate tra “padre e figlio”, quando vuol dire qualcosa di solenne,
comincia a farfugliare parole senza senso, non perché non c’è dialogo, ma solo
per il disagio.
Infatti
molti genitori evitano di parlare coi figli per il forte disagio, continuando
così arrivano ad un punto che non sanno più che dirsi. In fondo non serve tanto
per avere un buon rapporto! Si vive anche meglio in un’atmosfera senza attriti
e paure. Certo i genitori devono fare la loro parte, come non riversare i
propri problemi sui figli; a volte capita, ed è triste, vedere ragazze che
odiano le madri.
Per
quanto riguarda l’unità di decisione tra i coniugi, mi sembra che qui in Italia
per la maggior parte siano le donne a prendere decisioni nei riguardi dei
figli. Ma poi, in fondo, i figli fanno ciò che vogliono; non si può tenere al
guinzaglio un figlio, a meno che il figlio non lo lasci fare. Da piccola ho
sempre assecondato mio padre perché lo credevo una persona da temere, era poco
permissivo e facilmente irritabile. Ma poi ho scoperto che basta chiedere con
gentilezza ed indorare la pillola con buoni propositi.
I
ragazzi di ora sono molto liberi nelle decisioni e nelle loro scelte. Ci sono
genitori che cercano di essere simpatici e di apparire giovani agli occhi dei
figli, ma sbagliano. I genitori devono essere severi e realistici! Alcuni
invece cercano di far diventare i figli quel che loro non sono potuti essere,
oppure “cloni” di se stessi. Ma ci sono anche ragazzi che imitano
spontaneamente l’esempio dei genitori; è buffo vedere madri depresse e figli
altrettanto depressi, padri “peace and love” e figli altrettanto. Ma spesso i ragazzi copiano gli stereotipi che propone la
TV. È triste vedere le persone tutte uguali!
S.
(Italia-Kenya)
Nella mia famiglia non c’ è chi comanda
e chi subisce
In
Kenya il cambiamento della famiglia non è stato così veloce come qui in Italia.
La parità tra madre e padre o tra marito e moglie non è stata ancora raggiunta.
Comunque la donna si è riscattata e nelle nuove generazioni moltissime bambine
hanno un’istruzione e molte donne lavorano a seconda della disponibilità.
Quelle che hanno più di due figli e vengono impegnate a tempo pieno da loro,
per guadagnare qualcosa cucinano e vendono pietanze nel quartiere o presso
ristoranti.
La
differenza tra marito e moglie è data anche dalle diverse mansioni. Nelle
famiglie che rispettano le tradizioni antiche il padre non ha molto contatto con
i figli, ma spesso è lui che prende le decisioni importanti; anche in Kenya il
detto: “Dietro un grand’uomo c’è una gran donna” è valido e le signore in Kenya
sono molto furbe. I matrimoni sono a
volte combinati, soprattutto se si tratta di famiglie ricche o importanti. Si
tende a sposarsi per interesse. Per una donna la cosa più importante è una
buona sistemazione per sé e per i figli e questa è ottenuta con un marito
benestante, se non ha un lavoro; altrimenti è libera di stare con chi ama.
I
bambini vengono subito avviati alla religione e lì hanno l’educazione che
inciderà maggiormente su di loro. Passano la maggior parte della giornata a
scuola, sono liberi quel poco tempo che rimane.
Le
idee non vengono inculcate a forza dai genitori, ma da tutti gli altri che
impongono una miriade di tabù. I miei genitori mi hanno lasciata libera, anche
perché ero un tipo indipendente, ho sempre cercato di cavarmela da sola, ma
grazie a mio marito mi sono sistemata.
Non
ho una grande vita sociale e non avendo un lavoro mi dedico alla famiglia, ma
questo non vuol dire che dimentico me stessa per gli altri. In Kenya capita di
dimenticare tutto per amore, ma credo anche qui in Italia, come in tutto il
mondo.
Con
mia figlia ho un buon rapporto e pure con mio marito, ma non cerchiamo di
soffocare nostra figlia con le nostre idee. Noi non soffochiamo lei e lei
rispetta noi. Quindi penso che nella mia famiglia non ci sia chi comanda o chi
subisce, ognuno fa ciò che crede! Senza troppa serietà e senza far pesare i
problemi sugli altri.
Selima
(Kenya)
Sarà come rinnovare la vita e
risvegliarla come a primavera
Fin
dagli albori delle prime civilizzazioni l’uomo ha mostrato fortemente la
necessità di una forma di vita sociale attraverso la quale forgiare la propria
storia che, in forma globale, rappresenta quella che noi studiamo e chiamiamo
la storia dell’umanità.
Da
piccoli gruppi chiamati tribù a grandi popoli che oggigiorno tendono sempre più
ad unirsi, stiamo vivendo attualmente un processo di unificazione forse mai
vissuto in precedenza. Usi e costumi vanno uniformandosi, scompaiono le
differenze che in altri tempi generarono guerre ed incomprensioni tra
differenti popoli e nazioni. Sicuramente la famiglia, che rappresenta la
cellula dell’umanità, è stata soggetta a notevoli trasformazioni, in modo tale
da vederne le differenze nel breve trascorrere di una o poche generazioni.
Naturalmente viene immediata la voglia di fare confronti, favorevoli o no, tra
quella che chiamiamo famiglia moderna e le altre che l’hanno preceduta.
Possiamo discuterne all’infinito, ma non riusciremo mai a comprendere se in
questo processo di trasformazione la famiglia stia andando incontro ad un
futuro migliore o peggiore.
In
primo luogo, in molti casi, qualcuno pretende di chiamare famiglia l’unione di
due giovani per il semplice fatto che vivono sotto uno stesso tetto, altre
volte certe unioni non sono state vincolate da alcun contratto religioso o
civile, senza alcun obbligo e senza impegni per il futuro. In altri casi si
prende per buona la promessa reciproca nell’attesa di risolvere tutto tra
qualche anno... Naturalmente ogni caso ha le proprie giustificazioni; sta di
fatto che l’istituzione familiare pressoché ovunque è in crisi; penso che ciò
sia dovuto ad una vera e propria reazione dei giovani nei confronti della
mentalità dei propri genitori. Due giovani dell’inizio del secolo appena
terminato, al conoscersi e al sentire l’uno per l’altro sentimenti di affetto,
si scambiavano la promessa di matrimonio col desiderio di una vita per sempre
unita e benedetta da tanti figli; ciò accadeva nella quasi totalità dei casi.
Purtroppo
noi figli siamo stati testimoni dei loro sacrifici perché una vera famiglia è
quasi sempre estremamente pesante da mandare avanti; per questo oggi si tende a
sostituire il matrimonio con una semplice unione di fatto e a rinunciare ai
figli perché costano troppo. Questo atteggiamento viene spesso giustificato dai
problemi che presenta il nostro attuale stile di vita: in realtà potremmo
cambiare molto e forse sarà meglio farlo prima di rimanerne totalmente schiavi.
Il mondo oggi è più ricco di ieri; però gli uomini schiavi di questa ricchezza
sono più poveri, perché vanno perdendo i propri principi. Io sono da poco
sposata, ancora non ho famiglia e so che non l’avrò mai finché non avrò figli.
Con questo non voglio dire che dovrò rinunciare a tutto e non voglio dire che
il numero dei figli debba essere tale da non poterli sostentare, come detta
l’amore che avrò per loro e che provo per il compagno della mia vita. Forse
chiedo troppo, ma sono convinta che il mio sogno sarà la mia felicità e che
presto tanti giovani come me possano pensare nello stesso modo. Sarà come
rinnovare la vita e risvegliarla come la nuova linfa risveglia gli alberi a
primavera. Quanto alla educazione dei figli penso che debba essere ripartita in
egual misura tra i genitori, come a entrambi i genitori corrisponde di comune
accordo la scelta da prendere in ogni situazione. E giusto educare i figli
rispettando le loro scelte, lasciando la libertà nella formazione di una
propria personalità, come del resto è stato per me. Condivido i principi
espressi da Gibran, però le frecce scoccate a volte è necessario seguirle per
evitare che colpiscano il bersaglio sbagliato.
Gloria
(Paraguay)
L’amore nella famiglia come mutuo
affetto e sacrificio
Più
volte mi sono chiesta che cosa significhi famiglia e altrettante volte mi sono
chiesta come veramente dovrebbe essere. Alla prima domanda ho trovato risposte
semplici anche se allo stesso tempo complesse. Credo che per famiglia debba
considerarsi l’unione di due esseri che hanno deciso di vivere assieme la loro
vita dedicandosi a se stessi e ai figli che verranno. Alla base di questa
unione sta sostanzialmente l’amore, perciò intendo la famiglia come sinonimo di
amore nel vero senso della parola, che significa mutuo affetto e sacrificio… e
qui mi sperdo nella complessità della maggior realtà umana: la convivenza.
La
famiglia infatti è anche e soprattutto convivenza, ma non solo fisica, direi
soprattutto spirituale. Mi chiedo che cosa sia oggi la famiglia se moglie e
marito convivono solo poche ore del giorno, se non esistono figli o, se pure
esistono, raramente condividono il loro tempo in quello che dovrebbe essere un
“nido d’amore” che però in realtà è un semplice tetto. Questo modo di pensare
sembra pormi in critica nei riguardi del presente, magari appassionata
sostenitrice di arcaici principi. Cercherò di essere sincera confessando che
non provo invidia per quella famiglia degli inizi del secolo che vedeva un
padre e una madre affranti da fatiche ed umiliati per dover saziare i numerosi
figli, dividendo fra tutti un insufficiente tozzo di pane. Oggi la miseria,
almeno in molti Paesi del mondo, è stata messa al bando, ma è bene chiedersi a
quale prezzo. Io sono giovane ma spero proprio di non dover rinunciare a troppe
cose per difendere il diritto fondamentale: l’amore, gli affetti, i sentimenti
che dovranno aiutarmi ad avere una famiglia. Ho riflettuto a lungo: penso di
rifiutare ogni compromesso con me stessa, con gli altri e con tutto il mondo,
nel mio futuro vedo chiaramente me stessa assieme a lui e a loro. Lui ed io
vivremo per loro e loro saranno per noi la forza e la speranza, le nostre
frecce vive dovranno essere lanciate da un buon arco, teso da una mano ferma.
Solo così raggiungeranno felicemente l’obiettivo ideale.
Luisa (Paraguay)
Non più come una caserma
Secondo
me la famiglia è un nucleo di due persone che si amano. Nel tempo, quando viene
il momento, quel nucleo si arricchisce di figli. Se il rapporto fra i genitori
è buono, sano e con tanto amore, la famiglia è buona e tranquilla. Se un
rapporto è così, i figli crescono sani e felici. Nella mia casa paterna non è stato così. Il
comportamento dei miei genitori riguardo ai figli era molto rigoroso, severo,
pieno di regole come se si fosse in una caserma. Unica risposta che si poteva
dare era: sì, ho capito. In caso contrario venivano bruttissime conseguenze.
Non avevo nessun diritto, ma solo doveri. Nessuno ha mai rispettato i miei desideri,
le mie scelte o la mia libertà. Per tutto il tempo che mi ricordo sempre c’è
stato lavoro e studio, mai gioco.
Per liberarmi di
tutte queste regole, ho chiuso gli occhi e, senza pensarci, ho fatto un passo
lungo, sono scappata e mi sono sposata. Per fortuna ho trovato un uomo buono,
troppo giovane ma molto buono. Con tanti sacrifici, lavorando, ho portato
avanti gli studi all’università. Con un figlio in braccio, lavorando, dopo
breve tempo mi sono laureata. Insieme costruivamo il castello della nostra
vita, pietra dopo pietra, ma sempre felici, sinceri, pieni di amore e
rispettosi l’uno verso l’altro. Il nostro è stato amore a prima vista.
Abbiamo due figli,
tanto amore, molto rispetto, tanta fiducia l’uno per l’altro. Tante volte
succede che si litiga per i figli, perché lui dice sempre che i nostri figli
hanno troppa libertà. Parlando troviamo la soluzione giusta. Come vola il
tempo, come se fosse successo ieri, ma abbiamo passato trent’anni insieme.
Prima di sposarmi, ma anche dopo, ho giurato a me stessa che se Dio mi
concedeva figli volevo diventare la loro amica, compagna di giochi e da ultimo
madre. Mai una persona possessiva, noiosa. Volevo che i nostri figli fossero
sinceri con noi, fiduciosi, che sapessero che potevano aver aiuto da noi in qualsiasi
caso e da nessun altro, soltanto da noi due. Che potevano chiedere e aspettare
il nostro appoggio, se ce n’era bisogno. Lo stesso comportamento devono avere
anche i genitori. Non possiamo chiedere ai nostri figli di aver fiducia in noi
se noi stessi non siamo fiduciosi e non abbiamo fede in loro. La fiducia e la
sincerità devono essere reciproche In questo momento la mia casa funziona così.
Cosa può succedere
quando i figli si sposano? Non lo so. Devo aspettare e vedere. Spero e desidero
che le persone che si sposano accettino quello che trovano e che siano
tranquille e felici. Ho sempre pensato che non si deve fare a nessuno quello
che non piace a noi. Se fai bene trovi il bene, se fai il male trovi il male.
Le uniche cose che possono portare avanti una famiglia sono l’amore, la
felicità, la fede e il rispetto dell’uno verso l’altro.
Miriana (Iugoslavia)
L’amore è accettazione dell’altro
Innamorarsi. Non
esiste un sentimento migliore. Dicono che l’essere madre sia ancora più bello,
ma non ho avuto bambini, perciò non ne posso parlare. Innamorarsi, chi non si è
innamorato/a qualche volta? Forse volare potrebbe essere ancora migliore, però
se uno si innamora è come se volasse. E un sentimento che ci fa più belli/e.
Infatti si vede, si nota se una persona è innamorata. La faccia si illumina,
l’amore esce dagli occhi ma non solo dagli occhi, anche dalle orecchie, da
tutto il corpo. Si fanno pazzie, ma non importa. E un sentimento che non ha
niente a che vedere con l’altra persona di cui siamo innamorati/e. È un sentimento individuale, fatto da noi
stessi. Costruiamo un’immagine come vogliamo, come ci piacerebbe che l’altra
persona fosse.
Spesso la realtà è diversa. Poi arriva
l’amore o non arriva. Allora si vedono i difetti che la persona amata ha sempre
avuto ma che prima non vedevamo. L’amore è un sentimento maturo, è accettazione
dell’altro. Uno decide se vuole o non vuole amare mentre l’innamoramento
semplicemente succede. L’amore è fra due, due uniti ma non “arruffati”. Due
insieme ma ognuno con la sua personalità, senza diventare uguale all’altro.
Ognuno con il suo pensiero e il suo sogno perché diventi realtà il sogno dei
due.
Anna
(Spagna)
Settima Lettera
Camminando per le vie della città
avrai notato un grande numero di chiese; l’Italia, almeno sulla carta, è un
Paese a maggioranza cattolico. E difficile dire quanto lo sia per una scelta
consapevole o quanto per tradizione; quasi tutti i neonati vengono battezzati
molti matrimoni vengono celebrati in chiesa e anche i funerali si svolgono per
lo più alla presenza di un prete. Ma da ciò a dire che siamo un Paese in cui i
valori cristiani sono diffusi corre una grande differenza. A mio avviso, il
messaggio di Gesù è un messaggio universale di amore e di condivisione, di
vicinanza agli ultimi e di compassione. La nostra società, che si dice
cristiana, ha al suo centro altri punti di riferimento: l’individualismo, il
denaro, il successo personale. Il nostro mondo è basato sul possedere,
sull’avere, sull’accumulare. Proprio il contrario di quanto Gesù predicava e
voleva. Così la sostanza è tradita; spesso ci si accontenta di aspetti religiosi
di cerimonie esteriori, ma non si coglie l’essenza, la sola cosa necessaria.
Credo che bisogna sempre distinguere fra fede e religione. La religione si
limita spesso a qualche pratica esterna, la fede va nel profondo e ti cambia
dentro. Spesso la religione può rappresentare solo un ‘appartenenza rassicurante,
darti un‘identità di gruppo, senza chiederti un cambiamento di cuore, di
mentalità, di vita.
Quand’ero bambina si svolgevano
spesso delle processioni per le vie del mio Paese; la gente accompagnava le
statue dei santi con canti e preghiere e le case in quell’occasione erano piene
di addobbi e di luci. Erano feste a cui partecipavano tutti e che richiamavano
spesso antiche feste pagane in occasione della raccolta delle messi, della
vendemmia, quasi antichi riti contadini a cui erano state sovrapposte feste
cristiane e santi particolari. Si pregava per la pioggia, per i raccolti, come
gli antichi contadini pagani. Non dico che allora, almeno in alcuni, non fosse
presente una fede profonda, è difficile giudicare le persone nel loro intimo;
mi limito quindi a constatare dei fenomeni che in sé avevano radici lontane e
pagane; spesso certe cerimonie erano frequentate da tanta gente perché la
religione in sé non impegna tanto, è facile, richiede un atto di culto
esteriore e nulla più. Ora, nel nostro mondo moderno, sono scomparse in gran
parte le manifestazioni del passato, come certe processioni del mondo
contadino; sopravvivono in parte nel Sud Italia, quasi residui di un mondo
arcaico.
Ora la scelta di fede è un fatto
più personale, individuale. Di fronte alla vita e alla morte ognuno si dà
risposte diverse. C ‘è chi vive come se al mondo esistesse solo lui, c’è chi
vede solo i propri interessi e il proprio mondo, c’è chi ritiene di far parte
di un mondo più vasto e di dover rispondere delle proprie azioni anche agli
altri, c ‘è chi crede che tutto finisca con la propria morte, c’è chi pensa che
niente abbia senso e tutto si verifichi per caso, c’è chi crede che tutto abbia
un senso, magari misterioso e nascosto e che a noi in gran parte sfugge. In
questo mondo così vario e diverso, credo che essere uomini e donne significhi
sempre ricercare, confrontarsi, ascoltare e aprirsi agli altri. Sono gli altri,
e soprattutto i più deboli, che rivelano se siamo uomini o donne di fede, se
siamo chiusi in noi stessi o aperti agli altri. Il mondo di oggi ci può liberare
dalla schiavitù di appartenenze rigide o esclusive per aprirci all’incontro con
il diverso e con “l’alterità “. Forse questo è il cammino della fede autentica.
Tu cosa ne pensi? Quali sono le tue radici religiose? Quali i tuoi pensieri in
proposito? Pensi anche tu che ci sia una profonda diversità fra fede e religione?
Cosa significa per te avere fede? Trovi che in Italia ci sia rispetto per le diverse
forme religiose o hai scoperto forme di intolleranza, di derisione nei riguardi
di certe pratiche religiose o di certe tradizioni?
Una
insegnante del corso
Risposte
Non basta andare in chiesa
Ho
letto la tua lettera che mi ha fatto venire tantissimi pensieri. Desidero
risponderti e dire come io vedo queste cose. È vero, camminando per le strade
anch’io ho notato tante chiese, le case di Dio come mi piace chiamarle. Ognuno
di noi ha diritto di pensare come gli pare, credere o non credere. Spesso penso
che se crediamo che Dio è uno, che
C’è
un libro vecchio più di tutti noi. Un libro che è esistito, esiste ed esisterà
anche dopo di noi,
Ecco, come potete vedere, sono tanti
questi bellissimi proverbi. Basta solo trovare qualche minuto libero per
leggerli. Dopo non è difficile diventare saggio. Basta soltanto leggere,
leggere, leggere...
Miriana
(Iugoslavia)
Credo solo a quello che vedo
Io
sono nata in una famiglia molto religiosa. Mia madre va ogni giorno in chiesa.
Mio padre ha lavorato tutta la sua vita in un collegio di gesuiti. La mia casa
era sempre piena di preti. Noi siamo in sette, ma a nessuno di noi piace
Anna (Spagna)
Vera religione è condividere il buono e il cattivo dell’
umanità
Vengo da un Paese molto lontano, dove
la religione e la fede sono fra le cose più importanti per noi. Ci sono tante
maniere e forme di praticare la religione e la fede; ci sono persone che vanno
in chiesa soltanto quando hanno bisogno di essere ascoltate da qualcuno, oppure
per far credere alla gente che sono religiose, ma la verità è che la fede è
qualcosa di più profondo. Quand’ero piccola ricordo bene che con la mia mamma
pregavamo sempre insieme tutte le sere perché non mancasse mai nella vita nulla
a nessuno. Ora, nel nostro mondo moderno, sono cambiate tante cose, è molto
diverso da prima; ognuno pensa a se stesso, i più deboli e poveri rimangono
sempre indietro con la speranza di un domani un po’ migliore. In questo mondo
così diverso dobbiamo soprattutto essere più nobili e più aperti agli altri che
hanno bisogno di noi. Io penso e credo veramente che fra fede e religione ci
sia una profonda differenza, perché essere religioso non vuoi dire soltanto
andare in chiesa o pregare, in realtà la vera religione è essere fedele a Dio e
soprattutto condividere il buono e il cattivo dell’umanità.
Gloria (Paraguay)
Imparare ad amare non solo se stessi
La religione in Bulgaria, il Paese dal
quale provengo, è cristiana-ortodossa e in minoranza islamica. Durante la
dittatura comunista avevano privilegi coloro che facevano parte del partito
comunista, mentre le persone che decidevano di non nascondere la loro
professione di fede in Dio erano discriminate: non potevano avere una
promozione o un aumento di stipendio, per i giovani era molto difficile entrare
all’università, ecc. Tutto ciò però non ha soffocato la fede della gente. Il
Natale e la Pasqua non erano feste ufficiali, ma in tutte le case si
festeggiavano secondo le tradizioni cristiane. Secondo me ognuno deve avere la
possibilità di scegliere se essere religioso o no e quale religione praticare.
Penso che la cosa più importante sia avere fede, quella fede che sorge dal
profondo del cuore e che si chiama amore. Non parlo solo dell’amore fra l’uomo
e la donna, ma anche di un sentimento di pace, misericordia, umiltà e catarsi
che ti riempie guardando il cielo, il mare, le montagne o un bambino; tutto
questo è amore per
La fede è ciò che ci aiuta a superare
momenti difficili della nostra vita, come la fame, la morte di una persona
cara, una malattia grave, una violenza subita. La fede ti cura l’anima quando
il dolore è insopportabile, ci aiuta a non lasciare spazio al male che è capace
di avvelenarti, di fare di te una persona morta dentro, senza amore e speranza,
piena di odio e rancore verso gli altri che hanno ciò che tu non hai.
Io
credo che Dio sia uguale per tutti, indipendentemente dalla religione, e il
rispetto per la vita debba far parte della nostra morale. Mi fanno paura coloro
che usano il nome di Dio per manipolare la gente e usarla per i loro scopi,
oppure per convincere qualcuno ad uccidere o a suicidarsi. La religione spesso
si usa anche per provocare guerre, ricordiamo l’Algeria, l’Albania, i Curdi,
ecc. Il mondo sarà più bello se gli esseri umani troveranno la fede e
impareranno a amare non so o se stessi ma anche gli altri esseri umani,
indipendentemente dalla loro religione, dal colore della loro pelle e dalla
nazionalità alla quale appartengono.
Villy (Bulgaria)
In
tutte le religioni c’è chi afferma di essere credente ma non segue tutte le
regole. È naturale in una società così frenetica dove non si ha nemmeno il
tempo da dedicare alla propria famiglia. Le persone partecipano ai riti
religiosi solo per convenzione o tanto per mostrare agli altri che si crede a
qualcosa; ma non è giusto, si mente solo a noi stessi. Sono tanti in Italia
quelli che non praticano la religione cristiana e che si limitano a partecipare
alle cerimonie più importanti come Pasqua e Natale che “riscuotono successo”
solo perché sono diventate pretesti per scambiarsi doni. È assurdo diventare
più buoni a Natale; perché durante l’anno non bisogna esserlo? Spesso i bambini
non conoscono il vero significato di queste feste e si lasciano trasportare
dalla frenesia, dalle luci, dai regali e così pure i grandi che non vivono le
feste religiose come un momento per celebrare Dio, ma solo per consumare. In
Italia spesso i ragazzi non hanno una buona conoscenza dei loro testi religiosi
e non è giusto che solo da anziani ci si avvicini alla religione!
Nel
Kenya la situazione è leggermente diversa. Le religioni più importanti sono la
cattolica e
In
Kenya tutti sono fratelli e si aiutano a vicenda. Sono importanti le elemosine
che spesso danno alla moschea o ai bambini poveri. Un altro esempio di
fratellanza si trova nella cerimonia funebre. Il corpo viene lavato e poi
“benedetto” con regole ben precise. Dopo la sepoltura segue una settimana di
preghiere collettive per il defunto. Dopo 40 giorni viene fatta una grande
riunione dove si offre un pranzo ed un bel gruppo di persone prega per il
defunto. Però la vedova, se si tratta della morte di un uomo sposato, deve
rimanere in lutto per quattro mesi e dieci giorni, periodo nel quale non può
vedere nessun uomo, solo donne, e quindi non può uscire di casa. Importante è
il giorno in cui finisce il digiuno, importante almeno quanto il Natale. Si
banchetta e si prega Dio. Ci si scambiano doni e i ragazzi escono per recarsi
al luna park. Certamente, come ho già detto, in ogni religione c’è chi non
pratica effettivamente il proprio credo e quella musulmana non fa eccezione, ma
i casi sono meno frequenti.
La
mia famiglia è divisa in due religioni: mio marito è cattolico io sono di
religione islamica. Mia figlia non ho ancora deciso! Ha 15 anni, avendo la
possibilità di scegliere, lo vuole fare con calma; intanto studia entrambe le
religioni e dice che in fondo l’importante è credere a qualcosa, a qualcuno
che, più grande di te, possa aiutarti e darti la forza di andare avanti. Mia
figlia dice che quando avrà fatto la sua scelta cercherà di vivere la religione
abbracciata con il massimo impegno. Mio marito in chiesa ci va spesso ed io,
anche se abito qui in Italia, cerco di seguire le regole del Corano e quando
posso aiuto i parenti in Kenya. Nonostante ciò non ci sono mai stati conflitti
o incomprensioni tra noi. Beh! È anche un matrimonio tra due culture.
Selima (Kenya)