Se un fiume segna

un confine non è per dividere

ma perché

ci sia acqua ai due lati

 

 

 

Corso di italiano per donne immigrate

Anno 1998-1999

 

 

 

 

 

COMUNE DI LIVORNO

Centro Donna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Volume promosso da  Comune di Livorno, Politiche femminili, l.go Strozzi1, 57123 Livorno.

Tel. 0586 890053; fax 0586 888310; e-mail: centro donna@comune.livorno.it

 

Copertina e disegni di : Ambra Lunardi

Cura editoriale: U. Comunicazione ed editoria – Attività Editoriali del Comune di Livorno, p.zza del Municipio 1, 57123 Livorno. Tel 0586 820568; fax: 0586 820486; e-mail: pubblicazioni @comune.livorno.it

Stampa: Pacini Editore S.p.A. - Pisa


 

Indice

*   Introduzione e Premessa

*   Anche noi siamo stati un popolo di emigranti

*   L’ospitalità

*   La cultura del cibo

*   Noi e gli anziani

*   L’importanza dell’arte e della cultura

*   La famiglia

*   Religione e fede

 


Introduzione

 

Con la pubblicazione del volume Ci sia acqua ai due lati, prosegue il progetto dell’Amministrazione comunale volto a consegnare alla città, attraverso testimonianze dirette, la “memoria” tutta al femminile di uno dei suoi punti “storici” di aggregazione: il Centro Donna.

La forma scelta è quella — abbastanza inusuale — di uno scambio di domande e risposte attraverso il rapporto epistolare tra le operatrici del centro e le donne straniere che hanno frequentato il corso di lingua italiana.

Ne vengono fuori ritratti di vita, ma anche analisi di situazioni politiche, economiche, culturali molto diverse dalle nostre, ma con un filo conduttore comune, costituito dalla presenza forte della donna all’interno del nucleo sociale di appartenenza, sia esso a carattere tribale, collettivo, familiare o mononucleare.

Quasi tutte le donne che hanno accettato di rispondere alle lettere/domanda delle insegnanti sono state costrette a lasciare la propria città, nonché abitudini ed affetti, per affrontare un’esistenza spesso difficile anche dal punto di vista materiale, in continua ansia per la sorte dei propri familiari lasciati in luoghi lontani, forse mai più raggiungibili.

Appartengono ai contesti sociali più disparati, sono molto diverse tra loro, non solo per una eventuale differenza di età ma anche per carattere: in alcune prevale il rimpianto, in altre l’ottimismo, ma tutte sono accomunate oggi dalla consapevolezza di non essere sole.

Superare ideologie diverse, diverse culture nel nome della solidarietà fatta di valori comuni costituisce — crediamo — la vera forza che ha portato avanti negli anni il Centro Donna, cui va ancora una volta l’augurio e l’apprezzamento dell’Amministrazione comunale.

Il Sindaco di Livorno

Gianfranco Lamberti

 

  

 


Premessa

Questa piccola pubblicazione contiene una cinquantina di lettere che affrontano argomenti diversi fra loro quali l’emigrazione, il senso dell’ospitalità, la cultura del cibo, la cura e il rispetto per gli anziani, il valore dell’arte e della cultura, la famiglia, la religione.

Questi scritti sono il frutto di più di un anno di attività svolto presso il "Centro donna” di Livorno durante un corso di lingua italiana tenuto da un gruppo di insegnanti volontarie che da circa nove anni svolgono questa attività a favore delle donne straniere presenti in città.

In tutti questi anni qualche centinaio di donne ha frequentato questi corsi che sono stati per loro non soltanto un’occasione per imparare la lingua italiana, indispensabile per un proficuo inserimento in Italia, ma anche e, forse, soprattutto una opportunità di trovare un luogo di accoglienza, di scambio, di comunicazione, di comprensione e di amicizia che ha reso meno problematico il loro primo periodo di permanenza nel nostro Paese. Crediamo di poter dire che le tante donne che hanno frequentato il corso si sono sentite ascoltate e capite nelle loro difficoltà, nei loro problemi e che fra noi insegnanti e loro si è creato uno scambio umano ricco e significativo.

L’attività svolta dall’ottobre 1998 al maggio 1999 è stata articolata e varia; oltre all’insegnamento della lingua, realizzato in piccoli gruppi omogenei, si sono svolti incontri con esperti di varie materie (sanità, scuola, immigrazione, ecc.), visite guidate, visione di filmati, feste di condivisione, discussioni collettive. Nel periodo novembre 1999-febbraio 2000 abbiamo completato il lavoro relativo a questa pubblicazione. Gli scritti contenuti in questo fascicolo costituiscono uno scambio interculturale, un confronto di esperienze derivanti da mentalità diverse.

L’idea iniziale è stata quella di offrire a tutte le partecipanti al corso degli spunti di riflessione attraverso una lettera-stimolo scritta da noi volontarie, a cui è stata in grado di rispondere solo una minoranza, costituita da donne con una discreta o buona conoscenza della nostra lingua (con qualche rara eccezione di donne che hanno scritto nella loro lingua materna). Lo stile dello scritto — la lettera — è stato scelto al fine di un coinvolgimento personale più diretto e immediato, senza nessuna presunzione di “obiettività” rispetto agli argomenti trattati. Il nostro è stato uno scambio confidenziale, senza eccessive pretese, uno scambio “leggero”, ma probabilmente vero e coinvolgente. Abbiamo intenzione di continuare su questa strada che ci pare ricca di sorprese, di spunti di riflessione, di possibilità di confronto.

Una annotazione: abbiamo mantenuto volutamente intatto lo stile delle risposte, tutte firmate con pseudonimi, limitandoci a qualche correzione ortografica. Infine, il titolo della pubblicazione si ispira ad una frase, che ci è parsa significativa, contenuta in una delle lettere di risposta.

 

Le insegnanti volontarie: Mila Banchi, Daniela Barducci, Maria Pia Lessi, Marida Bertocchini, Maria Bruschi, Elena Caruso, Annamaria Casapieri, Carla Ermoli, Elisabetta Frizzi, Gabriella Galletta, Manuela Nocchi, Fiorella Vukich Clemen.         
Una menzione particolare per Santi Bessi, interprete.

 

  

 

Prima Lettera

 

Forse nessuno ti ha dato il benvenuto quando sei arrivata in Italia. Sei venuta qui dopo un viaggio lungo e faticoso, dopo aver lasciato la tua terra e i tuoi cari.

Sei giunta qui senza conoscere quasi nulla di noi, dell‘Italia, della sua cultura, della sua storia, delle sue tradizioni.

Vorrei darti ora il benvenuto che nessuno ti ha rivolto al tuo arrivo e vorrei innanzitutto dirti che capisco la tua fatica nel compiere un lungo viaggio, necessario ma duro da affrontare, le tue difficoltà nel venire in un Paese in cui tu ti senti straniera ed estranea, a partire dalla diversità della lingua, del cibo, della moneta, per arrivare ai modi di fare, di comportarsi, di atteggiarsi, di esprimersi.

Tu hai tante cose da dirmi da raccontarmi, cose che io non conosco e che solo tu conosci sia per ciò che si riferisce alla tua scelta personale che ti ha spinto a venire in Italia, sia per quanto riguarda la cultura del tuo Paese rappresentata dall’insieme di storia, di tradizioni, di usanze, di mentalità, di modi di fare e di essere. Ti vorrei fare tante domande su1 passato e sul presente della tua terra, sulla situazione economica e politica del tuo Paese, sulla mentalità della gente, sullo spirito che anima il tuo popolo. Credo che siano molte le cose che ci uniscono e che ci rendono simili ma penso che anche molti aspetti ci differenzino. Mi interessa conoscere la tua “diversità “e credo che anche a te interessi conoscerci e capirci in quanto "stranieri” rispetto a te.

Comincio io a parlare di noi italiani, dell‘Italia, della nostra mentalità, della nostra storia. Prima di tutto voglio dirti che anche noi, fino a pochi decenni fa, eravamo un popolo di emigranti. Anche noi siamo stati costretti a lasciare l’Italia per cercare lavoro in Paesi lontani (penso all‘Argentina in cui vivono milioni di figli o di nipoti di italiani). Anche mio nonno paterno, all'inizio del secolo, partì per gli Stati Uniti e per parecchi anni lavorò nel Vermont, uno stato ai confini del Canada. Lì faceva il marmista, cioè lo scalpellino, un lavoro faticoso che gli diede ricchezza (diventò addirittura padrone di una piccola fabbrica di marmo, assieme ad altri italiani) ma gli procurò anche una grave malattia ai polmoni, la silicosi, che lo portò prematuramente alla morte. I marmisti, durante il loro lavoro, per ore e ore sono costretti a respirare polvere provocata dalla lavorazione del marmo col risultato di un danno irrimediabile alla salute. Così mio babbo nacque negli Stati Uniti, ci visse una trentina d’anni per poi tornare definitivamente in Italia assieme ai genitori.

All'inizio del 1900 l‘Italia era in gran parte un Paese contadino in cui esisteva grande miseria ed ignoranza. L’analfabetismo era assai diffuso; la scuola elementare veniva frequentata da pochi; era considerato un lusso mandare a scuola i propri figli che erano più utili a casa, nel lavoro dei campi o nei lavori di manovalanza o di cura dei fratelli più piccoli. C‘erano già in Italia, sin dal 1800, alcune grosse fabbriche ma erano concentrate nelle grandi città del Nord: Milano, Torino, Genova. All'inizio del secolo anche qui da noi si moriva per mancanza di un‘alimentazione adeguata: pensa che un piatto tipico del Nord era la polenta di granturco (mais) che costituiva il cibo quotidiano assieme a latte, fagioli e poco più. Non c‘era varietà alimentare quindi si soffriva e si moriva di molte malattie, quali la pellagra, causate dall’avitaminosi e dalla mancanza di proteine. In quegli anni un altro mio nonno (da parte di mia mamma) era medico condotto in un Paese del Polesine (zona della pianura padana in provincia di Rovigo). Lui curava la povera gente, si alzava di notte quando era chiamato per un bisogno o per un‘urgenza, spostandosi in bicicletta anche per chilometri in mezzo alla nebbia; spesso si toglieva di tasca dei soldi per permettere ai propri pazienti di comprare un po’ di carne che i contadini di allora mangiavano assai raramente, per lo più in occasione di grandi feste quali Natale e Pasqua.

L’emigrazione continuò anche negli anni successivi e non ebbe interruzione neppure dopo la seconda guerra mondiale (1940-1945). Nel 1968 mi capitò di recarmi in Germania e precisamente a Stoccarda. Qui ebbi occasione di vedere centinaia di connazionali in prevalenza uomini del Sud Italia, calabresi, siciliani, pugliesi abruzzesi campani, che vivevano soli, lontani dalle loro famiglie in condizioni davvero precarie e dure da sopportare; ricordo che alcuni di loro abitavano in un vecchio bunker di guerra, in una situazione di grande abbandono. Alcuni film rappresentano assai bene la situazione di emarginazione di tanti nostri concittadini. Penso in particolare al film “Pane e cioccolata“ ambientato in Svizzera negli anni sessanta o giù di lì. Se hai occasione di vederlo ti potrai fare un’idea più precisa dei problemi di allora. Intere vallate si spopolavano, a Nord come a Sud.

Credo che sia necessario mantenere viva la memoria per capire di più i problemi di chi in questi anni lascia la propria terra. Non possiamo far finta di non capire: i vostri problemi di ora sono i nostri stessi problemi del secolo appena concluso. Tu cosa ne pensi? Quali sono le tue idee in proposito? Quali le tue esperienze? Se riesci a comunicarmele te ne ringrazio, mi offrirai una possibilità di capire meglio. Se non riesci ad esprimerti bene in italiano, rispondimi pure nella tua lingua, in caso di difficoltà a capire mi farò aiutare da chi la conosce bene.

 

Un’insegnante del corso


Risposte

 

Cancelliamo dal vocabolario la parola “straniero”

Sono venuta a partecipare a questi corsi o, per meglio dire, incontri che il Comune di Livorno ha voluto organizzare con insegnanti italiane e alunne straniere, credo con il fine di aiutare queste ultime a superare le grandi difficoltà di tutti quelli che, per diverse circostanze, finiscono per identificarsi come “stranieri”, spinta da due motivi. Il primo: accompagnare mia cognata “paraguaya” che sicuramente troverà attraverso nuove conoscenze maggior facilità di inserimento in questo che per lei è veramente un nuovo mondo. Il secondo motivo, debbo confessarlo, è che io stessa mi considero un po’ straniera. Mi è doveroso chiarire questo concetto di “un po’ straniera”, ma realmente non posso dirmi completamente italiana per aver vissuto poco più di due anni in questo meraviglioso Paese, né posso considerarmi “paraguaya” per aver vissuto per vent’anni in quel bellissimo Paese, dove il caso mi fece nascere da una madre e un padre italiani i quali, giorno dopo giorno, mi crebbero e mi fecero vivere in un clima totalmente italianizzato. E così che, invece di usare l’espressione “un po’ straniera” meglio sarebbe definirmi “due volte straniera”.

Qualcuno potrebbe pensare che questa mia strana situazione abbia potuto crearmi doppi disagi. Se in questo momento potessi rivolgermi a tanti stranieri, i quali al pensiero dei loro ricordi del passato si rattristano, direi semplicemente queste parole: noi dobbiamo trovare la forza di cancellare una parola sola dal vocabolario e questa parola è “straniero”, perché ognuno di noi ha il sacrosanto diritto di sentirsi uguale a tutti gli altri che quotidianamente incontra ovunque, non importa se a Seoul o a New York. Lo stesso vale per un incontro tra un tibetano e un gaucho della pampa argentina nella campagna di Cecina.

So che non è facile sperare che questo possa accadere in breve tempo, però gli uomini camminano e le montagne stanno ferme... L’umanità è sempre più vicina al suo incontro. Il cielo è bello ovunque e gli oceani, che sempre rimarranno enormemente profondi, giorno dopo giorno diventano sempre più stretti... Una cosa sola vorrei dire: se la terra è il dono che Dio ha concesso all’uomo, comprenda l’uomo che Dio stesso nel creare la

Terra non segnò confini. Se un fiume divide un territorio è perché ci sia acqua ai due lati... Possa presto l’umanità costruire infinità di ponti per unirci sempre più, questi ponti non costeranno assolutamente niente perché non hanno bisogno di ferro e cemento. Dovremmo solo usare una materia prima che si incontra in abbondanza in ognuno di noi: basta solo scavare nel nostro intimo e lì incontreremo tutto l’amore necessario per farci finalmente sentire cittadini della terra e far dimenticare pene e tristezze che possono affliggere l’animo di chi casualmente si incontra a un passo da quella che chiama “la mia terra” quando esiste solamente una terra per tutti.

Luisa       (Paraguay)

 

Sono un’emigrante di prima classe

Rispondo alla tua gentilissima lettera di accoglienza il meglio che posso. Nella tua lettera tu parli di inizi difficili, del fatto di trovarsi in una terra strana e straniera da soli, di come è difficile emigrare e lasciare tutto il tuo alle spalle, nel tuo Paese. Io mi sento in colpa, sono troppo fortunata. Vengo da un Paese “più o meno” ricco, un Paese comunitario che mi ha dato l’opportunità di emigrare senza fatica. Io sono un’emigrante di prima classe e questo mi fa sentire male, mi fa sentire in colpa per avere troppo (e non valutarlo spesso).

Per me è stato facile fin dall’inizio, perciò la mia storia non è paragonabile con le storie delle altre. Anch’io ho la famiglia, gli amici, le mie cose lontane, però sono io che ho fatto questa scelta. Io posso scegliere e non ho parole per ringraziare per questa opportunità.

Rachele       (Spagna)

 

Grazie del benvenuto in Italia

In Italia sono venuta per studiare la musica e la lingua italiana. Quando venni in Italia la prima volta avevo il visto di studio per la lingua italiana, pagato in Germania molto. Quando mi iscrissi al Conservatorio di La Spezia, il vecchio visto non era più regolare. Dovetti tornare in Giappone e fare un nuovo visto di studio per la musica, annullando il vecchio.

In ogni città dove ho studiato, Perugia, La Spezia, Livorno, ho notato molta differenza nei documenti che richiedono le persone della Questura. Il mio Paese ha una cultura, usanze, mentalità ecc., molto diverse dall’Italia.

Il Giappone è un Paese che ha un tasso di disoccupazione del 2,5%. Invece l’Italia circa del 12%. I cittadini italiani non sono molto contenti di vedersi arrivare da ogni Paese del mondo persone in cerca di lavoro. Però gli italiani non vogliono fare alcuni lavori che così vengono fatti da stranieri. Sui giornali si leggono molte cose positive e negative. Ad esempio: gli italiani in futuro avranno molti anziani e poche persone che lavorano; negli ultimi anni sono aumentate le nascite di bambini stranieri in Italia. Per cui questi bambini in futuro, diventati grandi, lavoreranno in Italia. L’ingresso degli stranieri in Italia non mi sembra ben regolamentato, a differenza di quanto succedeva agli italiani che partivano anni fa in cerca di lavoro.

Giunko     (Giappone)

 

Mi sento come punita perché sono nata nel mio Paese e non in un altro

Ogni essere umano nasce senza la possibilità di scegliere né i suoi genitori, né il Paese, né il tempo storico o economico, né la ricchezza o la povertà della sua famiglia.  Ogni bambino appena nato è costretto a cominciare la sua vita da una base già determinata indipendentemente dalla sua volontà. Ecco perché esistono bambini, persone analfabete e poverissime che sono già contente di essere vive, contente di aver trovato da mangiare e un posto dove dormire. Esistono anche -delle persone molto ricche che hanno perso la ragione della loro vita e cercano di capire perché non sono felici, di scoprire chi sono, ma non ci riescono. Loro non hanno sofferto le cose semplici, la difficoltà di trovare un pezzo di pane o un posto di lavoro. Il troppo benessere, secondo me, trovato fin dalla nascita, in un certo modo ostacola la capacità di valorizzare le cose essenziali della vita. Con tutto questo non voglio dire che per essere felice la gente debba per forza soffrire; assolutamente no, però si può anche cercare di capire le ragioni degli altri, perché sono diversi, che cosa li ha fatti diventare così come sono, cercare di aiutarli, perdonare e amare.

Questi sono i miei pensieri e io sono una donna bulgara di 30 anni: sono una straniera non estranea però ai problemi degli altri stranieri e degli italiani. Vorrei raccontare la storia del mio Paese così come la conosco.

La Bulgaria nacque nell’anno 681 quando tre diverse grandi tribù (Traci, Savi, Protobulgari) decisero di unirsi in un unico popolo il quale, nel corso dei secoli, diventò sempre più grande e forte. Gli eventi importanti furono la cristianizzazione dei Bulgari e la creazione dell’alfabeto bulgaro da parte dei fratelli Cirillo (da qui chiamato Cirillico) e Metodio, allievi della famosa scuola di Solun.

Nel XIII secolo, mentre le truppe militari bulgare erano occupate a difendere i confini dagli attacchi degli Unni e Nomadi, il potente impero Ottomano del sud invadeva la Bulgaria. Così i Turchi sono riusciti a dominarla per ben 500 anni, finché nel 1877/1878, dopo le rivolte e grazie al coraggio del popolo e all’aiuto della Russia, la Bulgaria ottenne la sua indipendenza. Per cinque lunghi secoli i Turchi presero annualmente il così detto tributo sangue (rubavano i bambini piccoli e li facevano diventare i guerrieri più spietati dell’esercito ottomano). Molti genitori, prima di essere uccisi, riconoscevano proprio figlio da qualche segno o voglia presente sul corpo del loro assassino.  L'obiettivo più importante dell’impero ottomano era di convertire il popolo bulgaro alla religione musulmana. Non ci riuscirono. Lo stesso popolo, tenace e orgoglioso, offrì la testa perché preferì che gliela tagliassero piuttosto che rinunciare alla propria fede e alla propria cultura. Infatti, ha continuato a parlare e a scrivere in bulgaro; ha continuato a costruire le sue chiese; ha scritto il suo primo libro “La storia Slavianobulgarskaya” (del prete Paisii Hilendarski); ha creato i suoi eroi e poeti; ha fatto le sue rivolte. Quei periodi difficili hanno determinato e formato il carattere e lo spirito del popolo bulgaro.

Negli anni seguenti la Bulgaria perse nella prima guerra mondiale e si sentì la forte presenza dell’impero austro-ungarico. Il 1918 fu l’anno della guerra per la liberazione della terra Rumelia sud (perché prima faceva parte della Bulgaria), rimasta ancora sotto il dominio turco. In seguito la Bulgaria riprese la sua terra però, non riuscendo ad unire la Macedonia, perse una grande parte del suo territorio. Nella seconda guerra mondiale il governo si arrese al forte nemico con la speranza di salvare il popolo. Si sentiva la forte influenza del partito comunista, nacque il movimento partigiano il quale, fino alla fine della guerra, rimase il protagonista del grande movimento per la liberazione dal fascismo. Vorrei evidenziare il fatto che la Bulgaria è l’unico Paese che è riuscito a salvare i suoi Ebrei dallo sterminio. Un ministro del governo, Dimitar Pescev, riuscì a convincere gli altri ministri che l’assassinio dei 40.000 Ebrei era vergognoso e sarebbe stata una macchia incancellabile nella storia bulgara. Il governo fece resistenza e lo Zar bulgaro fu costretto a rifiutare a Hitler l’estradizione degli Ebrei (i fatti sono ben narrati in un libro recente scritto da un autore italiano "L’uomo che fermò Hitler").

Questi sono gli eventi più importanti della storia del mio Paese fino al 1944 e da qui invece comincia la storia della mia famiglia. Nel 1943 mio nonno materno fu ricoverato in ospedale per un’ernia, qui fu riconosciuto da un fascista come aiutante dei partigiani. Così durante l’operazione arrivò l’ordine di sospendere l’intervento e mio nonno morì sotto i ferri. Il brutale omicidio fu scoperto alcune settimane dopo e mia nonna rimase vedova con sette bambini piccoli. La famiglia di mia madre aveva 100 ettari di terra con alberi da frutta, coltivazioni di verdura, piantagioni di tabacco e mais, per cui era necessario lavorare sodo per poterli curare. Il nuovo governo però votò una legge secondo la quale il popolo non poteva avere proprietà e la terra di mia nonna fu confiscata. Così oltre che vedova diventò anche povera. In quei tempi le donne si sposavano molto giovani, perché la vita dei contadini, soprattutto per le famiglie numerose, era difficile. La mamma si sposò a 18 anni e con mio padre si trasferì nella seconda grande città della Bulgaria: Plovdiv. Un anno dopo venne al mondo mio fratello che è di 12 anni più grande di me.

Devo dire che subito dopo la liberazione dal fascismo, molti bulgari, non contenti del governo della politica socialista e anche di essere stati derubati dallo Stato, emigrarono e furono costretti a cercare altrove quello che non potevano avere nel loro Paese. L'emigrazione fu indirizzata verso Stati Uniti, Canada, Australia, Germania, dove si sono fermati anche gli zii di mia madre. Negli anni seguenti tutto questo non poté più accadere, perché i confini furono chiusi. E se qualcuno avesse ricevuto il permesso di uscire dalla Bulgaria, lo poteva fare esclusivamente verso i Paesi del mondo socialista.

Io dall'età di quattordici fino a vent’anni ebbi la possibilità di visitare tutti i Paesi socialisti europei. Da quello che mi ricordo e secondo le mie osservazioni, l’Ungheria era il Paese in cui si viveva meglio e mi ricordo anche che in Polonia, a Varsavia, se un turista parlava russo non gli rispondevano neanche. Non dimenticherò nemmeno le lunghe file per il pane; i numerosi negozi immensi e vuoti, i visi turbati della gente di Kiev in Ucraina nel 1990. Nello stesso tempo la situazione in Bulgaria era migliore di tanti altri Paesi che facevano parte dell’Unione Sovietica, ma era sempre molto difficile. Fino al 1989 la Bulgaria è stata una repubblica popolare sottoposta a una dittatura. Poi il Paese si è avviato sulla via della democrazia con molti partiti politici con un presidente democratico (Petar Stoianov) e una severa guerra contro l’inflazione e la disoccupazione. Il mio Paese ora ha bisogno di molti investimenti e dell’aiuto dei Paesi più ricchi per poter dare inizio ad un’economia stabile, per poter dare posti di lavoro e la possibilità all’intelligenza e alla cultura bulgara di uscire dall’oscurità durata così tanti secoli.

Io sono nata nel 1968 a Plovdiv dove ho vissuto, studiato e lavorato fino all’ età di 21 anni finché non sono andata a studiare a Burgas (una città sul mar Nero) dove ho preso una laurea breve come amministratore di alberghi e ristoranti. Dopo tre anni sono tornata a Plovdiv dove ho ricominciato a lavorare cambiando diversi impieghi per motivi non dipendenti dalla mia volontà. Due anni fa sono venuta in Italia per la prima volta e il mio primo impatto non è stato dei migliori perché, mentre facevo spese a Firenze, mi hanno rubato tutti i soldi che avevo. E stato molto difficile superare la disperazione perché i soldi non erano pochi, oltretutto erano tutti i miei risparmi di quattro anni di duro lavoro. Poi sono tornata in Bulgaria dove mi aspettava una brutta notizia: mio padre aveva un tumore ai polmoni in stato avanzato. La sua malattia era dovuta ai faticosi lavori svolti per otto anni nelle miniere di una città lontana da Plovdiv. Non posso esprimere il dolore e il trauma che ne seguì. Vorrei solo dire che la morte di mio padre ha cambiato molto il mio modo di pensare e la mia sensibilità. Prima pensavo di avere davanti a me tutta una vita per realizzare i miei desideri e raggiungere i miei obiettivi. Ora cerco di vivere la mia vita attimo per attimo, perché non si sa quale potrebbe essere la mia sorte. Porto sempre con me la paura di perdere altre persone cui voglio bene. Per questo quando sono loro vicina cerco di dare tutto il mio affetto. Ho conquistato la sensibilità che mi permette di scoprire la bellezza là dove prima non ne ero capace e il rispetto per la vita sotto tutti i suoi aspetti.

Secondo me qui in Italia molte persone sono riuscite a trovare un giusto equilibrio tra lavoro e tempo libero, grazie anche al benessere presente in questo Paese. Sono rimasta però meravigliata da una cosa - il poco rispetto per la “privacy” della gente - ovviamente da quello che ho potuto notare. Poi per fare la spesa è necessario molto più tempo che nel mio Paese, perché sia agli acquirenti che ai venditori piace parlare un po’ troppo. Sono rimasta anche sbalordita dal comportamento di alcuni automobilisti italiani che non si fermano nemmeno quando ci sono le persone sulle strisce pedonali. Spesso mi succede che la gente, cercando di essere gentile, mi rivolge una domanda senza però interessarsi alla mia risposta. Questo atteggiamento mi offende molto. Spero che non sia premeditato e che sia solo una questione di carattere.

Devo dire che, forse diversamente da molti altri stranieri, io e la mamma siamo state molto ben accolte e ospitate dalla famiglia italiana presso cui lavoro. Indipendentemente da tutto, dopo due anni in Italia mi sento ancora come un albero senza radici. Sento moltissimo la mancanza dei miei genitori (mia madre è tornata in Bulgaria un anno fa) e dei miei amici.  

Mi rendo conto di essere cambiata, di aver perso il senso di sicurezza, il senso di poter affrontare tutto quello che mi potrebbe succedere. Nel tornare in Bulgaria ho notato una cosa interessante; sentivo di riacquistare ciò che pensavo di aver perso, la sicurezza, l’autostima, la terra ferma sotto le mie gambe e osservavo la vita da un altro punto di vista: arricchito da una nuova esperienza.

In un altro Paese la tua vita dipende molto dalla burocrazia, dalla legge che ti considera privilegiato se fai parte della Comunità europea e svantaggiato se sei extra-comunitario. Tutto questo, secondo me, non è giusto e in un certo modo anche molto umiliante. Ti senti come punito, perché nato nel tuo Paese e non in un altro. La diversità non si deve considerare un difetto, ma un pregio. Da questa diversità si può imparare e può qualcosa di speciale e meraviglioso. Quelli che sono diversi non si devono vergognare, anzi devono essere orgogliosi.

Io lo sono e con tutta la mia forza cerco di combattere la fragilità dovuta alla mia inadeguatezza e di non perdere la stima di me stessa. Cerco di imparare anche a parlare e a scrivere bene in italiano per poter esprimer meglio la mia esperienza, i miei pensieri. Così spero un giorno di poter trovare un lavoro che mi piaccia e mi soddisfi.

Villy         (Bulgaria)

 

Mi sentivo abbandonata da tutti e da tutto

Vorrei rispondere alla tua lettera e dirti come i tuoi pensieri sono sbagliati. Ma non è così. Nessuno, proprio nessuno mi ha dato il benvenuto quando sono arrivata in Italia. Il viaggio è stato lungo e faticoso, più di quaranta ore. Dopo che ho lasciato la mia casa, i miei cari e la mia terra mi sentivo abbandonata da tutti e da tutto. Piangevo tutti i giorni. Quando mangiavo pensavo a cosa mangiavano loro, a chi preparava il cibo, chi faceva il bucato. Erano restati soli e abbandonati. Io non voglio parlare di emigrazioni e di guerre, perché sono sempre esistite, esistono ed esisteranno. Fame? Sempre qualcuno in questo mondo è affamato, triste e addolorato. Di questo parlano tutti.

Io ti voglio fare un’altra domanda. Cosa significa per te amore? Cosa significa per te amare? Questi sentimenti esistono ma nessuno vuole parlarne. Cosa mi puoi dire sull’amore e sull’amare? Ti voglio dire come io vedo queste cose. Come le sento. L’amore è quando esci per la prima volta con una persona sconosciuta per conoscerla e scopri subito che l’ami per sempre, prima di conoscerla. L’amore è una canzone cantata da due persone che si amano. L’amore è guardare il cielo e scoprire che la levata del sole è bella come il tramonto. Che ci sia il cielo con milioni di stelle o con la luna piena o senza luna, è lo stesso bello perché siamo insieme. Sentire gli stessi profumi della natura e dividere dei sentimenti che prima non hai sentito mai.

L’amore è tanto misterioso, sogni violenti che ti portano pensieri sui baci che vorresti e che vorresti regalare. L’amore è un’ossessione non controllabile. L’amore è un dolore che riempie la bocca con lacrime quando siamo soli. L’amore insieme è dolce e amaro, un miscuglio nero e profondo. L'amore è come la sabbia che passa tra le tue dita senza ferirle. L’amore è la paura e la rabbia, il fallimento e la gloria, il paradiso e l’inferno, la gioia e la tristezza, l’amore e l’odio, la guerra e la pace. Tutto insieme in una persona. L’amore è una malattia non curabile. Ha tante facce, è come un ladro che il destino ha mandato. Per questo non resta niente a noi, solo sognare. Chiudere gli occhi e sognare un sogno da cui non ci si vuole svegliare. Stare con la persona che si ama è come volare, volare alto nel cielo sopra le nuvole. Ma nello stesso tempo sentire paura di un tornado in arrivo. E tenere carezze levate dal sole. Questo sentimento tormenta il cuore e l’anima ma nello stesso tempo ti rende tanto felice. Quando stai con la persona che ami è come volare, volare alto fra le nuvole, lontano dalla realtà.

Come puoi vedere l’amore non nasce dalla testa ma dal cuore sì. Il sangue lo porta in tutte le parti del nostro corpo dove non è possibile cancellarlo. Dalla testa sì, ma dal cuore mai. L’amore che sento è l’unica ricchezza che ho. Ricchezza che è possibile portare in tutte le parti di questo mondo.

Miriana           (Iugoslavia)

 

Dentro i miei sogni sentivo una voce femminile che mi chiamava per nome

Sono peruviana di nascita; adoro il mio Paese; però, per circostanze della vita, ho dovuto lasciare la mia famiglia ed il mio umile focolare. Non dimenticherò mai quella sera quando arrivai in Italia; un Paese diverso, diverso nell’aspetto socio-culturale-politico, nelle sue tradizioni e nei suoi costumi. Chissà se potrò avere la stessa fortuna di alcune persone che per qualsiasi motivo stanno qui. Il motivo della mia presenza in questo Paese ha un solo obiettivo: il lavoro. Per ora. Spero più avanti di conoscere prima di tutto la gente, le sue forme di vita suoi costumi. Adesso comincio a raccontare in dettaglio di come fu il mio arrivo in questo meraviglioso Paese, l’Italia. Era una sera che non dimenticherò mai! Quando sono arrivata alla stazione di Livorno non conoscevo nessuno, ero un po’ spaventata, guardavo la gente che scendeva dal treno, ed anch’io ho dovuto fare la stessa cosa; c’era una cabina telefonica ed ho avuto fortuna perché avevo bisogno di mettermi in comunicazione con mia cugina che già stava da molto tempo a Livorno. Per telefono mi disse che dovevo uscire dalla stazione per prendere poi un taxi; aveva parlato anche con una sua amica perché venisse ad accogliermi. In quel momento comparve la sua amica che mi domandò: “Tu sei la cugina di Noemi?”, io le risposi di sì e mi tranquillizzai; arrivammo a casa sua dove aspettammo mia cugina che sarebbe tornata dal lavoro. Il giorno seguente uscimmo assieme, mia cugina ed io. Lei era diretta al suo lavoro, io invece ero il problema, non sapevo dove stare. Mia cugina mi disse che c’era un posto dove potevo stare tranquilla: mi portò alla Fortezza. Erano le 9,30 del mattino. Il tempo era interminabile; cercai in qualche modo di accomodarmi, ma ero così stanca che mi addormentai su una panchina: c’era da aspettarselo perché avevo il corpo indolenzito dal viaggio. Per un momento pensai che stavo sognando, però dentro i miei sogni sentivo una voce femminile che mi chiamava per nome; quando aprii gli occhi vidi davanti a me una signora italiana che mi chiedeva: “Tu sei Olga?”. Io le risposi di sì. Lei mi disse che mia cugina era preoccupata per me e non sapeva se raccontare qualcosa o stare zitta; però la sua preoccupazione era tanto grande che questa signora se ne era accorta ugualmente e perciò era venuta a cercarmi invitandomi in a casa sua. Durante il tragitto la signora mi disse che mia cugina lavorava a casa sua e che quando lo desideravo potevo andare a trovarla.

Fino a questo momento tutto andava bene, però man mano che passavano i giorni sentivo una grande nostalgia dentro di me: piangevo e sentivo necessità di vedere la mia famiglia, ma ciò era impossibile; potevo solo sentire per telefono le loro voci. Provavo una grande tristezza, la mia unica consolazione era mia cugina alla quale sono molto affezionata. Grazie a Dio mi sto abituando, ho amiche meravigliose con le quali posso scambiare idee e sentirmi bene; ora sono ancora più tranquilla perché mi trovo circondata da persone buone e disposte ad insegnarmi ciò che tanto desidero, cioè conoscere la lingua italiana.

Olga        (Perù)    (traduzione dallo spagnolo)

 

Il tempo di far crescere mia figlia e farle ricordare l’Africa anche in Italia

Mio padre faceva il cuoco in una casa di inglesi; non era un grande lavoro, ma risparmiando riuscì anche a mantenere una famiglia; cominciò da giovane questo lavoro fino a che non fu troppo vecchio per lavorare. Sposò addirittura due donne; la più giovane era mia madre, lei era stupenda, ci voleva un mondo di bene a me e ai miei fratelli: lavorava in una fabbrica di cotone e la domenica, invece di riposarsi, lavorava nel suo orto. Ebbe nove figli, cinque bambini, di cui tre morti, e quattro bambine. Mio padre non riuscì a mandarci a studiare tutti, quindi preferì far studiare solo i miei due fratelli e noi ragazze ci limitammo a studiare il Corano. Mia madre, per “consolarci”, con i risparmi di una vita ci costruì una casetta come bene da ereditare, a titolo di noi quattro sorelle. Mia madre però morì giovane; io e le mie sorelle eravamo al cinema, quando ci vennero a chiamare urgentemente: nostra madre si era sentita male, aveva litigato con un vicino, le era salita la pressione; le venne un malessere e morì. Noi ragazze e ragazzi, ormai già grandicelli, dovevamo andarci a trovare un lavoro. Io lo trovai part-time in una fabbrica a Mombasa; quando non lavoravo facevo dolci e li vendevo nel quartiere dove abitavo. Mia sorella invece trovò marito e ebbe dodici figli, solo che per i primi cinque non riuscì a terminare la gravidanza, fece cinque femmine e un maschio. L’ultimo morì assieme alla madre che, giunta al termine della gravidanza, non ce la fece a partorire il figlio. Un’altra sorella si sposò con un indiano ed ebbe due figlie e un figlio.

Io dopo qualche tempo conobbi mio marito, lui veniva in Kenia in vacanza; mi conobbe a Malindi in un bar, ci piacemmo subito. Impossibilitato a portarmi subito in Italia, rimanemmo fidanzati per tre anni, in cui lui veniva a trovarmi due volte l’anno, dopo ci sposammo; ebbi subito una figlia. Dopo tre anni, tempo di far crescere mia figlia e farle ricordare l’Africa anche in Italia, venimmo qui a Livorno. Ogni due anni però vado in Kenia per tre mesi per salutare parenti e nipoti. Prima ci andavo con mio marito che ci accompagnava e ci riprendeva. Una di queste volte ci andammo d’estate, dato che nostra figlia è in vacanza; capitammo in una situazione un po’ bellicosa: c’erano delle sommosse per la religione. Mio marito non viene più insieme a noi, adesso che mia figlia è grande e può badare a se stessa, mio marito se vuole andare in Kenia ci va a settembre; una di queste volte capitò in una specie di battaglia tra Digo e Jeluo, cioè due tribù indigene: i primi non tolleravano i secondi e uccidevano chiunque stesse parlando in “Jeluo”, infatti, il Kenia è molto diviso, ci sono un’infinità di tribù con diverse religioni, usi e lingue. Fortunatamente nessuno della mia famiglia rimase vittima. Ultimamente c'è stata una bomba a Nairobi, in una banca. Comunque il Kenia è un Paese abbastanza tranquillo.

Il brutto di vivere lontano dal mio Paese è che non puoi star vicino alle persone a cui vuoi bene, se stanno male. Mio padre è morto qualche anno fa. Ero qui e non ho potuto salutarlo. E morto felicemente però: la notte si era chiuso in camera per dormire, la mattina non s’è più rialzato.Però qui sto bene con mia figlia e mio marito, sto cominciando a fare nuove amicizie e soprattutto se ho qualche soldo aiuto la mia famiglia quando ne ha bisogno.

Selima         (Kenya)

 

Mi sento protetta

Alcuni parenti mi hanno dato il benvenuto. Abbiamo lasciato il nostro Paese, la famiglia. Ci troviamo in Italia e ci aspettiamo una vita migliore. Il problema più grande per me è quello della lingua: capisco poche parole e non so scrivere in italiano. Io sono contenta di frequentare questo corso perché imparo molte cose del Paese dove voglio vivere e lavorare. Penso e spero di trovare comprensione in Italia, perché anche questo Paese ha conosciuto l’emigrazione. Lavoro presso una famiglia che mi tratta bene e mi sento protetta.

Lidia        (Santo Domingo)

 

Mi hanno accettata

Io mi chiamo Natascia, ho 27 anni, sono olandese e sono quattro anni che vivo insieme al mio fidanzato qui a Livorno. Sono venuta qui ma ci siamo conosciuti nelle Dolomiti dove io lavoravo come cameriera in un albergo, poi abbiamo deciso di venire qui. Sono venuta in Italia perché volevo imparare un’altra lingua e volevo sapere di più della mentalità italiana. Devo ammettere che è abbastanza difficile trovare un lavoro; da noi è molto più facile, anche per gli stranieri. Comunque piano piano dovrebbe venir fuori qualche cosa, ma ci vuole pazienza. Spero che Facendo questo corso di italiano sarà più facile trovare un lavoro. In Olanda ho sempre lavorato da quando avevo quindici anni: a quell’età puoi lavorare part-time, se vuoi.

Ho sempre lavorato perché in Olanda non è come ho visto qui che i tuoi genitori ti mantengono e ti pagano tutto. Questa è una cosa che a me dà molto fastidio, vedere tanti “figli di papà”o “mammoni”. Io conosco delle persone che hanno la mia età e che non hanno mai lavorato in vita loro; vivono sempre a casa e “spellano” i propri genitori. E le loro mamme stanno sempre pronte per loro. Certo che una mamma è sempre una mamma, ma come se ne approfittano certi figli a me non piace per niente. Però non sta a me giudicare, qui sono abituati così. Io sono contenta, conosco anche altre amiche olandesi ed italiane e sono contenta di aver conosciuto il mio ragazzo e la sua famiglia. Loro mi hanno accettata e questo è importante.

Natascia       (Olanda)

 

L’Italia è un Paese bello e la gente è gentile e parla ad alta voce

Prima di tutto vorrei dire a voi che sono venuta qui in Italia perché sapevo che mi aspettava il mio ragazzo, ora mio marito. Alcuni anni fa era venuto in vacanza in Messico e ogni giorno ci incontravamo sulla spiaggia e parlavamo a lungo. È tornato più volte in Messico per le sue e la nostra amicizia si è trasformata in amore. Sì, al principio era diffide per me esprimermi nella vostra lingua, ora però mi sono abituata, almeno lo credo, e capisco ciò che mi viene detto e riesco a esprimere i nei pensieri.

L’Italia è un Paese bello e la gente è gentile e soprattutto parla tanto e ad alta voce. Il Messico è il mio Paese, bello in quanto al clima: non c’è bisogno di comprare abiti estivi o invernali perché dove io vivo fa sempre piuttosto caldo e il clima si può definire primaverile. In futuro vorrei tornare al mio Paese per viverci per sempre purché la situazione politica migliori. Al governo messicano forse manca l’amore verso il Paese, perché , troppi pensano a se stessi. È un Paese ancora giovane dove la maggior parte della popolazione è costituita da bambini e ragazzi, i vecchi sono pochi.

Marta        (Messico)

 

Mi abituerò a vivere sapendo di essere tanto lontana dalla mia culla?

Cerano nella stanza un silenzio ed un’oscurità che però furono disturbati da un suono inconfondibile: una voce conosciuta, una voce che, da tanto lontano, mi sussurrava parole che fecero cambiare la mia vita. Tutto mi sembrava impossibile: io andare in Italia? Sì, sì in Italia, lui mi ripeteva insistentemente per telefono; un secondo dopo mi sembrava che le parole dette non avessero senso e la mia mente ripeteva più volte: Italia, Italia, io in Italia. All’inizio l’idea mi sembrò fantastica perché già da molto tempo desideravo viaggiare e conoscere’ nuovi Paesi; però questa non sarebbe stata una semplice vacanza ma piuttosto un definitivo trasferimento.

Oggi voglio raccontarle che per me questa decisione non fu facile da prendere: da una parte il Paraguay, dove io sono nata e cresciuta e dove sono nati e cresciuti i miei genitori; un Paese che mi ha trasmesso la sua cultura, le sue abitudini, le sue tradizioni e del quale conosco e amo le bellezze naturali. Dall’altra parte un Paese, del quale conoscevo solo il nome ed a malapena la sua ubicazione sulla carta geografica, che però mi faceva pensare a molte cose. Ad esempio: come saranno le persone che vi vivono, quali le loro abitudini? Avrò difficoltà ad imparare la lingua? Mi abituerò a vivere sapendo di essere tanto lontana dalla mia culla? Tutte queste domande che facevo a me stessa venivano cancellate al solo pensiero che in quel Paese mi aspettava una vita felice vicino alla persona amata. Io sì ho avuto la fortuna di ricevere un benvenuto, però questo non mi ha aiutato totalmente nelle difficoltà e nel cambiamento al mio arrivo in Italia. Non posso ancora raccontarle molto dell’Italia perché sono trascorsi solo pochi mesi, però posso dire che in questo poco tempo trascorso nel conoscere meglio l’Italia ho imparato molte cose nuove ed ho apprezzato la generosità e la gentilezza delle sue genti. Mi hanno sinceramente sorpreso le sue bellezze naturali e monumentali visitando alcune delle sue città come Roma, Firenze, Siena, Pisa, Lucca, Livorno ed altre.

Io so che non tutti quelli che arrivano in Italia da altri Paesi hanno la stessa fortuna mia e che non vengono per lo stesso motivo, che hanno dovuto lasciare il loro Paese per cercare in questo una migliore forma di vita che nel loro Paese non hanno potuto realizzare. Io desidero, come fossi italiana, aiutare e proteggere questi nostri fratelli, dando loro l’opportunità di potersi realizzare e vivere una vita felice con tutti noi.

Gloria       (Paraguay)   (traduzione dallo spagnolo)

 

Ho fatto la scelta giusta

Penso che la mia storia sia un po’ diversa da quella delle altre donne che hanno scritto. Mi considero molto fortunata perché la mia decisione di venire in Italia si è basata sul modo di vivere e non su motivi politici o economici. Infatti economicamente stavo molto meglio negli Stati Uniti, ma non credo che avere più soldi sia direttamente collegato con l’avere una vita migliore. C’è un detto: il denaro può comprare molte cose, ma non la verità. Io penso che-sia vero.

La mia breve storia: avevo quasi trentadue anni quando venni in Italia per una vacanza. Fu un’esperienza che finì per cambiare tutta la mia vita. Qui . Italia incontrai Marco — mio marito — e mi innamorai di lui; era nato e cresciuto a Livorno. Fui anche molto impressionata dalle persone che incontravo e dalla loro voglia di vivere. Io stavo bene negli Stati Uniti, in quanto avevo un ottimo lavoro, la sera studiavo per prendere il “bachelor” (diploma di baccalaureato); avevo guadagnato soldi sufficienti per comprarmi un’auto nuova, avevo un appartamento sulla spiaggia; quando volevo uscivo con i miei amici e viaggiavo un po’. Avevo una vita piena e attiva. Ma sentivo sempre che mi mancava qualcosa. Secondo me -anche se non la pensate così- mi mancava la persona giusta da amare e un senso di tranquillità. Quando trovai la persona giusta dovetti affrontare il problema del “dove” avremmo potuto vivere la nostra vita insieme in modo felice e tranquillo. Marco era disposto a trasferirsi negli Stati Uniti, ma altrettanto volentieri sarebbe rimasto qui in Italia con me; così la decisione fu quasi del tutto mia. Penso che per spiegare come giunsi a decidere di vivere in Italia, debba dare un’idea più approfondita della mia esperienza. della vita e della cultura negli Stati Uniti.

Dunque: perché avevo lasciato una vita comoda negli Stati Uniti? Perché avevo deciso di venire in Italia, Paese di cui non conoscevo la lingua, del cui popolo non capivo la cultura e dove ero sicura che la mia situazione economica sarebbe stata peggiore? In breve: ho fatto questo perché penso che in Italia ci sarebbe stato un modo migliore di vivere e che Marco non sarebbe mai stato felice negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, per la maggior parte della gente, la vita si impernia sul lavoro. Non è anormale lavorare cinquanta o sessanta ore alla settimana, o anche più, con al massimo mezz’ora o un’ora di intervallo per il pranzo. Dove lavoravo come parrucchiera, non c’era tempo per il pranzo; si mangiava qualcosa velocemente mentre la nostra cliente era sotto il casco. Un’esperienza molto diversa dal pranzo comodo che molte persone e le loro famiglie si godono qui. Penso che questa piccola differenza sia indicativa da sola della diversissima cultura dei due Paesi. Ho lavorato nello stesso luogo per tredici anni. Ho avuto occasione di conoscere molte persone di successo, di parlare con loro della loro vita e del loro modo di sentire. Una delle cose che mi lasciava maggiormente perplessa in queste persone, per il resto simpatiche, era il loro modo di concepire la vita in famiglia, il loro modo di crescere i figli e le loro idee su cosa rende positiva la vita.

La norma, per la maggior parte delle donne in carriera che conobbi allora (la maggior parte delle donne lavora fuori casa), è sposarsi, poi comprare la casa, macchine nuove, fare viaggi con i mariti. Solo quando si sono sistemate ed hanno un buon lavoro, decidono che è il momento giusto per avere un bambino. Dopo il concepimento, le donne lavorano quasi fino al giorno della nascita del figlio; dopo la nascita stanno a casa in maternità per sei settimane. Terminato il periodo del congedo per maternità, il bambino va al “nido” per tutto il giorno. Di solito il bambino viene lasciato al nido al mattino alle 6,30 e viene ripreso soltanto alle 18,30. Se si considera che la maggior parte dei bambini va a letto alle 20,30, restano solo circa due ore al giorno da passare con i genitori. Di solito io vedevo allevare così i bambini, nelle classi medie. Questi bambini passano con i loro stanchissimi genitori solo poche ore la sera ed il fine settimana. Perché? Perché credo che l’ideale di vita americano sia diventato: “devo avere tutto e forse un po’ di più di tutti gli altri”. Se la mamma stesse a casa più a lungo e lavorasse di meno, non potremmo avere una casa grande, due auto nuove e neppure pensare a due settimane di ferie per tutta la famiglia. I ragazzi non potrebbero indossare tutti i vestiti firmati che vedono in TV (MTV), le scarpe da tennis da duecento dollari o avere gli ultimissimi video giochi, se mamma e papà non lavorassero entrambi cinquanta ore la settimana.

Certo, in Italia vedo molte mamme che lavorano, ma la famiglia è ancora intatta. Le mamme stanno con i figli più di due ore al giorno, inoltre molti bambini stanno con i nonni quando le mamme non ci sono. Molte volte, da quando sono in Italia, ho sentito dire: “devi fare molti sacrifici per i tuoi figli”. Credo che in America nessuno voglia sacrificare niente; tutti vogliono avere tutto, cosa che non è mai possibile. Credo, come molti psicologi, che la mancanza di una vita con la famiglia sia direttamente connessa con l’enorme problema della criminalità. Ogni giorno si sentono resoconti di bambini che uccidono altri bambini. Ci sono stati molti studi che dimostrano che se un bambino non ha normali letami familiari nella sua infanzia, quando cresce è incapace di sentire pietà per gli altri o di avere il senso del giusto e dello sbagliato. Non credo che sei settimane possano essere considerate un arco di tempo adeguato per formare un legame familiare, prima che il bimbo venga affidato alle istituzioni per tutto il giorno. Credo anche che il grosso problema americano delle “bande” sia in relazione con questa mancanza di vita familiare: Per questi ragazzi la “banda” è un surrogato della famiglia.

Ovviamente ci sono persone che hanno fatto i sacrifici giusti per far crescere i loro figli in una famiglia amorevole. Ne conosco tante. Ma quando i figli hanno cinque anni li devi mandare a scuola. Allora hai paura che qualche altro ragazzo vada a scuola col fucile e cominci a sparare. Inoltre ogni giorno i tuoi figli sono bombardati da messaggi che suggeriscono che la loro famiglia non è abbastanza “bene” perché le loro scarpe da tennis non sono da duecento dollari come quelle degli altri ragazzi; i soldi e il cerimoniale che ne deriva sono ciò che conta nella vita; se stai male prendi queste pillole e tutto tornerà a splendere. So che anche da adulta mi è stato facile essere coinvolta nella gara nazionale ad avere di più. Non vorrei questa pressione su nessun bambino. Per questi ed altri motivi ho deciso di stabilirmi in Italia. Certo, anche qui esistono molti degli stessi problemi. Inoltre molte cose nella vita di tutti i giorni sono molto più difficili qui, come la pulizia degli abiti e il fare la spesa, per citarne solo due. Non ho tutte le cose di lusso che avevo negli Stati Uniti e che volta mi mancano molto. Mi manca la mia famiglia che mi vuole bene, i miei amici, però penso di aver fatto la scelta giusta. So che nessun luogo è perfetto e che non si può fare un’affermazione e pensare che sia vera per un intero Paese. Dalla mia esperienza qui in Italia posso dire però che le persone con cui sono venuta a contatto sono molto più sicure di sé, tranquille, si occupano degli altri e si godono la vita più di quelle che, negli Stati Uniti, hanno più soldi e benessere. La famiglia qui è molto più importante, il che —io credo — sia tra le cose più belle dell’Italia e che l’America ha perduto. Sarei felice se potessi allevare un bambino con tutte le buone qualità che ho riscontrato nella gente di qui. Secondo me sono le qualità che gli americani avevano ma che hanno quasi del tutto dimenticato nella voglia sfrenata di possedere tutto.   
È stato molto difficile per me esprimere ciò che sento e raccontare le mie esperienze in questa breve lettera, ma spero che sarete in grado di capire meglio quello che sono attraverso ciò che ho scritto. Grazie per avermene dato l’occasione.

Sinceramente

Antonia        (U.S.A.)   (Traduzione dall’inglese)

 

Sono nata nel lontano 1984

Il Kenya comincia ad essere importante dal 1498, cioè con l’arrivo di Vasco de Gama a Mombasa e a Malindi. Qualche secolo dopo fu colonizzato dai britannici che civilizzarono il Paese e gli diedero una costituzione. Nel 1920 il Kenya fu diviso in due, una parte governata dalla Gran Bretagna e l’altra, sulla costa, dal sultano di Zanzibar. Nel 1951 ci fu il grande massacro dei Mau Mau. Questi si erano ribellati al governo britannico perché i coloni avevano le terre migliori, mentre i Mau Mau, che erano gli abitanti originari, non avevano nulla e vivevano in condizioni precarie, costretti a lavorare come braccianti per i bianchi. I morti “ufficiali” furono 8702; l’impero britannico si giustificò dichiarando che anche trenta inglesi erano stati uccisi. Per ogni bianco morto furono uccisi 290 Mau Mau. Inoltre pare che i morti siano stati molti di più. Nel 1960 avvenne la pace, con l’inserimento nel consiglio legislativo di più nativi e con l’introduzione di un regime elettorale nuovo. C’erano due partiti: Kanu, guidato da Jomo Kenyatta, che chiedeva uno stato unitario e Kadu che chiedeva uno stato federale; c’era anche il problema della fascia costiera, appartenente al sovrano di Zanzibar, il quale, in cambio di una cospicua somma annuale di denaro, rinunciò volentieri alla sua sovranità, mentre i due partiti si accordarono per realizzare uno stato federale. Finalmente nel dicembre del 1963 il Kenya ottenne l’indipendenza e l’anno successivo fu nominato presidente Kenyatta.

Il neo presidente era della tribù kikuyu, quella che assorbì per prima gli usi e i costumi britannici e che è presente in tutti gli ambiti della società. Il vero nome del presidente era Kanawa Ngengy, ma fu soprannominato Kenyatta la cintura che amava portare. Dopo aver ricevuto una educazione scolastica nella chiesa di Scozia, lavorò a Nairobi come ispettore alle acque; -.qualche anno dopo si recò a Londra per chiedere di istituire scuole kikuyu. Alcuni mesi più tardi si laureò a Mosca, visse alcuni anni in Inghilterra, dove si sposò ed ebbe un figlio. La sua grande passione era la politica, infatti diventò noto per i suoi discorsi che denunciavano la politica britannica Nel 1946 tornò in Africa dove fu soprannominato “Mlee”, cioè vecchio. nel senso di saggio e colto. Fu accusato di aver spinto i Mau Mau alla rivolta e quindi fu imprigionato, senza prove, per ben sette anni. La sua casa fu meta di grandi pellegrinaggi, ormai tutti lo consideravano un leader africano. Dopo l’ascesa al potere di Kenyatta molti bianchi fuggirono dal Kenya, alcuni rimasero ed impararono a rispettare Mlee Kenyatta. Dopo di lui, nel 1978, è stato eletto Moi come presidente ed è in carica tuttora.

Un problema del Kenya è la presenza di molte tribù (quaranta), tra cui kikuyu, luo, kisii, masai, swahili, giriama. A parte i swahili, che si trovano sulla costa, le altre sono popolazioni rurali. La lingua è il kiswahili ufficiale) e l’inglese, che è molto parlato. Alcuni keniani addirittura parlano tra loro solo in inglese. Le religioni sono svariate: animisti, musulmani, cattolici, protestanti

Io sono nata nella città di Malindi, sulla costa, nel lontano 1984. Sono cresciuta con le mie cugine e con mia madre. Mio padre è italiano, quindi stava a Livorno per lavoro e ogni tanto veniva a trovarci. Mi indirizzarono allo studio del Corano, che non riuscii ad apprendere. All’età di tre anni venni in Italia con mia madre. A quattro anni fui mandata all’asilo per imparare l’italiano. A cinque anni cominciai le elementari e la mia carriera scolastica è continuata bene fino ad oggi che ho quattordici anni e mezzo e sono in seconda superiore (liceo linguistico). Da grande sogno di fare la hostess e poi a trent’anni di farmi una famiglia. Non ho avuto una vita di stenti e di avventure, fortunatamente, a parte le piccole divergenze con i miei genitori. Sono felice della mia vita, anche se ancora agli inizi, spero di ottenere di più, sempre di più...

S.      (Italia-Kenya)  

  

 

Seconda Lettera

 

Forse, per conoscerci meglio, è bene che ci raccontiamo delle storie di vita vissuta perché attraverso di esse le idee si fanno evidenti, senza  bisogno di lunghe spiegazioni. Ti racconto di come a casa mia, quand‘ero ancora bambina, si accoglievano gli ospiti.

C’era una zia che aveva il compito di preparare la stanza e il letto per chi veniva da noi; spesso si trattava di parenti. Io l’accompagnavo su in soffitta, dove c’era un armadio che conteneva lenzuoli di canapa (un tessuto un po’ ruvido molto usato in quei tempi di dopoguerra) tutti ben piegati e profumati di lavanda. La zia sceglieva con cura e con lentezza lenzuola e federe e poi scendeva al piano inferiore dove si trovavano le camere destinate agli ospiti. In quell’occasione aiutavo come potevo, stendevo per bene le lenzuola sul letto mentre respiravo quell’aria di attesa gioiosa che rendeva più  allegra e serena anche la zia, almeno così mi pareva.  C’era forse, in quei gesti antichi e premurosi; l’accettazione dell’ospite considerato “sacro” sia dalla tradizione contadina che da quella cristiana. Penso alle pagine bibliche dove si possono leggere episodi in cui sotto la veste di un ospite di passaggio si nasconde invece un angelo, un messaggero di Dio.

Quando venivano a trovarci dei parenti o degli amici l’ incontro si svolgeva in giardino, in un‘atmosfera rilassata, leggera e senza fretta. Noi ragazzi eravamo ammessi a questi incontri ma dovevamo stare tranquilli e per lo più in silenzio. A me non dispiaceva affatto, anzi in questo modo potevo capire meglio gli adulti e farmi un‘idea di come ci si doveva comportare in certe situazioni.  Parecchi anni più tardi; da adulta, mi capitò di ritornare alla casa delle zie in compagnia di una coppia di amici: ricordo ancora il silenzio rispettoso delle vecchie zie sedute in giardino, accoglievano nella loro immobilità senza tempo le parole e i gesti dei miei amici. Era il mistero dell‘altro che in qualche modo veniva riconosciuto, in questa discrezione: uno spazio, un ascolto rispettoso. Poi; quando qualcuno lasciava la nostra casa, le zie lo accompagnavano fin sulla soglia e da lì salutavano con un timido sorriso.

Non so come da voi vengono accolti gli ospiti; se suscitano curiosità, attenzione e rispetto, se ci sono modi particolari di accoglierli, se si fa festa, se si prepara qualcosa di speciale per loro.

A proposito di ospitalità vi racconto un episodio che mi è successo qualche anno fa e mi ha fatto capire come l’essere accolti generi gesti significativi. Un nostro amico marocchino aveva bisogno di ospitalità soltanto per alcuni giorni; così abbiamo a sua disposizione la nostra camera degli ospiti, alla fine della sua presenza in casa nostra, si è presentato con un regalo, un paio di lenzuola matrimoniali. Ho compreso allora quale valore e quale significato avesse avuto per lui questo nostro semplice gesto di accoglienza. Sono le culture più antiche che conservano ancora gesti significativi; modi di esprimere gratitudine che riflettono sentimenti profondi e genuini. Da noi ora, nelle nostre città, nel nostro mondo occidentale, l’ospitalità ha poco spazio, spesso è molto frettolosa, risente dei nostri ritmi di lavoro, della nostra mentalità efficiente e di questo credo, purtroppo, che tu te ne sia resa conto. Non abbiamo più “tempo da perdere”; per accogliere l’ospite occorre non avere l’orologio al polso ma mettersi un po’ fuori del tempo, sapendo cogliere il presente in tutta la sua ricchezza e le sue opportunità. Saper vedere il presente come un evento che non si ripete più, un‘occasione unica.

Recentemente ho letto un libro sull’ospitalità, il suo autore è Jabès, un pensatore morto recentemente. Chiudo con una frase sua: “ospitalità, una parola di dieci lettere. Di ognuna occorre avere cura.”

Una insegnante del corso

 

Risposte

 

Venticinque persone in tutta la casa, questa è l’ospitalità

Lei mi ha dato oggi una lettera sull’ospitalità, mi è piaciuta molto perché in casa nostra (quella dei miei genitori in Olanda) era molto importante l’ospitalità.

La casa era ed è tuttora sempre aperta per tutti quanti ed ho ancora molto rispetto per i miei genitori, di come accolgono le persone, sono sempre disponibili e pronti per tutti. Per esempio, se noi stavamo mangiando e qualcuno entrava, subito si prendeva un piatto, una sedia e questa persona mangiava con noi. Quando entra una persona durante il giorno si dice:

“Vuoi un caffè, un tè? Dai mettiti un attimo a sedere”. Mi ricordo una volta, c’era stata una festa e c’erano parenti che venivano da lontano, 25 persone sparse in. tutta la casa, su materassi a dormire.

Per me questa è ospitalità.

Natascia         (Olanda)

 

Se potesse porterebbe anche il telefono

Quando si accoglie qualcuno a casa nostra, un’amica, un parente, cerchiamo di “fare figura” cioè di sembrare la classica famiglia modello. Questo per me è buffo... per esempio, quando viene una mia amica a mangiare a casa mia o viene a trascorrere il pomeriggio con me, mio padre diventa un’altra persona: si preoccupa tre giorni prima di che cosa si deve mangiare, compra una nuova tovaglia, mostra i piatti più belli. Mia madre invece porta qualsiasi cosa con il vassoio, se potesse porterebbe anche il telefono.

È bello mostrare le cose più belle all’ospite e onorarlo, ma le mie amiche non sono Carlo d’Inghilterra!!! Spesso le mie amiche si sentono a disagio, ed anch’ io. A casa loro è tutto diverso, mi trattano come una di loro! Comunque penso che molti genitori siano come i miei. Quando si ospita qualcuno a casa propria, per cena o pranzo se desideriamo conoscerlo meglio o per uno spuntino alle cinque se non teniamo molto alla persona, bisogna essere noi stessi; la condivisione del pasto, che è il momento in cui tutta la famiglia si riunisce e si racconta quello che è successo durante la giornata, è un momento sacro... non si deve trasformarlo in un modo per sfoggiare la nostra ricchezza. A me piace una calda e familiare accoglienza, quindi non devo interrompere il ciclo quotidiano di casa.

In Kenya, l’ospite è sacro; però, anche se è una nuova persona, viene introdotta subito nella famiglia, cucina, lava, se è una donna, naturalmente; se è un uomo è tutta un’altra cosa, l’uomo non muove un dito a casa propria, figuriamoci in quella altrui… e la cosa mi irrita... ma lasciamo perdere. Concludendo ritengo che l’ospitalità sia bella solo quando l’ospite non è a disagio, quindi trattarlo senza troppi “fronzoli”, ma sempre con riguardo!!!

S.      (Italia - Kenya)

 

Offrire il pane come il tetto sopra la testa

Tutti i Paesi hanno i loro costumi e le loro abitudini. Anche noi abbiamo le nostre abitudini riguardanti l’ospitalità. Non importa se una persona è ospite o parente, sempre è il benvenuto. Quando queste persone entrano in una casa subito si porta il servire tradizionale: acqua, zucchero, caffè, grappa per chi ne vuole. Se è tempo di mangiare subito si porta l’ospite a tavola. Se è il momento di dormire si offre all’ospite una camera e si prepara subito il letto. Se qualcuno degli ospiti o dei parenti viene con un suo amico il comportamento è sempre lo stesso. Queste persone si accettano come ospiti personali, benché si vedano per la prima volta.

Voglio narrare un episodio della mia famiglia.  Nel 1992, quando è cominciata la crisi in Iugoslavia, mio fratello, sua moglie e i suoi bambini, la sorella della moglie e la sua figliola sono scappati dalla Bosnia, e tutti quanti sono venuti a casa mia. Sono vissuti nella mia casa per quasi sei mesi. Quando sono venuti non avevano niente. Soltanto la roba che avevano addosso, nient’altro. La mia famiglia ed io abbiamo aperto la nostra porta e i nostri cuori. Abbiamo dato tutto quello che si può dare per aiutare, consolare, per non farli sentire abbandonati. Provi ad immaginare 12 persone nella sua casa, senza niente, affamati, addolorati, perduti di se stessi. Dopo sei mesi, quando si sono sistemati, hanno trovato lavoro e casa per abitare normalmente e cominciare daccapo. La mia famiglia ed io abbiamo dato loro tutto il possibile per aiutarli, cominciando dalle cose semplici di cucina, le lenzuola, le coperte, gli asciugamani, roba per vestirsi, proprio tutto.

Non importa in che parte di questo mondo si vive, bisogna aiutarci con cuore e amore, offrire il pane come il tetto sopra la testa.

Miriana       (Iugoslavia)

 

No importa la raza ni el color de la piel, ama todos como hermanos

Anche se ero molto piccola mi ricordo quando i miei genitori mi parlavano di quanto importante e speciale doveva essere l’accoglienza e il ricevimento degli ospiti. Mi ricordo anche, da quanto ci avevano insegnato, il significato della parola ospitalità che per noi, i miei fratelli ed io, divenne sinonimo di attenzione e rispetto; addirittura la usammo inventando un gioco, il gioco dell’ospitalità. Era il più giocato da noi bambini, consisteva nel fatto che uno di noi faceva la parte dell’ospite, e gli altri degli ospitanti, davamo così all’ospite tutte le attenzioni e le cure che eravamo abituati a dare a quelle persone che per necessità o motivi vari si fermavano in casa nostra. Tutte le volte, ed era molto spesso, che avevamo degli ospiti in casa mi ricordavo una frase, una frase che diceva così “No importa la raza ni el color de la piel, ama todos como hermanos y haz el bien”.

Nel mio Paese gli ospiti vengono accolti in maniera molto particolare; in primo luogo li facciamo sentire come nella loro casa, gli offriamo il meglio che abbiamo e li trattiamo come un membro della famiglia.

Non dimenticherò mai quei dodici mesi in cui, per motivi di studio, dovetti essere ospitata in casa di una giovane coppia. Sapendo bene che ero lontana da casa e dalla mia famiglia; questo non provocò in me alcuna difficoltà grazie a queste persone, che mi dettero la possibilità di sentirmi non soltanto come un ospite ma addirittura un membro della loro famiglia. Tante furono le attenzioni che mi dettero che fin dai primi giorni ebbi l’impressione non di convivere con degli estranei, ma di trovarmi a contatto dapprima con veri e propri amici per finire poi per considerarli come parenti. Quando lasciai quella casa mi parve di averci vissuto da sempre e gli abbracci di addio suscitarono in tutti lacrime di vero affetto.

Gloria       (Paraguay)

 

Il tempo passato con loro era il più importante

Anch’io ho una bis-zia che ha insegnato a me tante cose: come pulire la casa, lavare i panni, ricevere gli ospiti nella casa e anche come essere una buona ospite. Penso che lei mi ha insegnato in un modo più antiquato di quello che è la norma negli Stati Uniti. Loro abitano in campagna, hanno una fattoria dove la mia famiglia ha abitato per tanti anni. Io stavo lì con loro ogni estate nella mia adolescenza. Le zie avevano sempre ospiti come me per tutta l’estate, qualche altro cugino per pochi giorni o i vicini per cena o per prendere un caffè.

Mia zia diceva sempre: “gli ospiti hanno bisogno di sentirsi comodi come nelle loro case”. Ricordo la zia al tavolo con i vicini. Loro bevevano il caffè e chiacchieravano per ore, ma mai sentivano la fretta.  La zia mai ha detto “bisogna fare altre cose”. Ho sentito che il tempo passato con loro era il più importante.

Ora negli Stati Uniti non è più così come prima. Le persone sono sempre di fretta, non hanno tempo per gli ospiti.  Per stare insieme per cena o per prendere un caffè vanno abitualmente fuori di casa: al ristorante. Anche i ristoranti non sono come qui, i proprietari vogliono che la gente mangi e che poi vada via, così possono servire più persone e incassare più soldi. Allora anche queste riunioni sono fatte in fretta.  È un peccato, ma sembra che nessuno abbia tempo per divertirsi con gli amici con calma. Tutta la vita è fatta in fretta; non c’è tempo per vivere.

Antonia       (U.S.A.)

 

L’ospitalità è il vero spirito che unisce gli uomini e li fa sentire fratelli

Da tempo e dovunque era stato annunciato con manifesti, volantini e comunicati radiofonici il limite del territorio che sarebbe stato sommerso dalle acque destinate alla formazione del grande lago artificiale che avrebbe fornito le acque alla grandiosa centrale idroelettrica.  L’esodo delle popolazioni del posto si presentò fin da principio come un vero e proprio dramma. Avevamo notizie di piccole comunità che si ribellavano ai militari incaricati di far rispettare con le buone o con le cattive l’ordine di evacuazione. Alcuni, trasferiti con la forza, tornarono e piansero sulle ceneri delle vecchie case che, giusto per evitare che gli abitanti rimanessero con la forza, erano state bruciate dai militari. Questa vera tragedia diventò per gli abitanti della mia città, che sapevano non sarebbe stata sommersa dalle acque, l’argomento di maggior importanza. Fu così che per suggerimento di alcuni membri della comunità fu deciso di fare quanto di meglio potevamo per dare aiuto a quelli che si sarebbero trovati dall’oggi al domani senza niente. La nostra non era una città ricca, i suoi abitanti erano per lo più agricoltori e piccoli commercianti, però tutti disponevano di una buona casa e tra i servizi pubblici avevamo un piccolo ospedale, che con una discreta scorta di medicine, vaccini e attrezzature varie rappresentava una buona garanzia per chiunque si ammalasse o fosse vittima di qualche incidente.

All’ingresso della città sul cammino principale d’accesso primeggiava la "alcaldia" davanti alla quale normalmente sostava il Tenente con l’uniforme ben stirata e gli stivali tirati a lucido. Fino ad allora il suo compito era stato quello di osservare se un estraneo di passaggio poteva o no essere il così detto tipo sospetto. In quei giorni il suo compito fu tutt’altro. Quelli che passavano davanti a lui erano nuclei familiari che con pochi stracci e tanti fagotti addosso passavano di lì lasciandosi alle spalle un passato che le acque avrebbero sommerso per sempre e guardando avanti in cerca di un futuro che neppure avevano avuto il tempo di immaginare. Nella ”alcaldia” era stato preparato, per così dire, un posto di accoglienza e di ristoro. Quelli che di lì passavano senza meta e sentivano il bisogno di rinfrancarsi, sostavano e potevano consumare un pasto caldo. Era il momento favorevole a una rapida intervista nella quale la risposta più frequente era un semplice “non so” che obbligava ad offrire qualcosa in alternativa.

Mio fratello ed io vivevamo con il babbo e la mamma in una casa che per noi era spropositatamente grande, così immediatamente comunicammo all' alcalde che eravamo disposti ad ospitare anche una famiglia di esuli. L’opportunità non si fece attendere. Una mattina con il sole già caldo ed un calore quasi soffocante ero seduta sotto l’ombra di un vecchio albero, quando vidi entrare nel giardino l’alcalde in persona e sostare davanti al portone un gruppo di persone, adulti e tanti bambini. Afferrai al volo la situazione e immediatamente andai incontro all’”alcalde”. Siccome sapevo già quello che veniva a propormi senza neppure ascoltare le sue parole risposi meccanicamente “Sì, va bene... non ci sono problemi...”. Con la mano l'alcalde fece cenno al gruppo di avvicinarsi e quando ci vide tutti attorno, rivolgendosi a quella gente taciturna e incredula, disse loro semplicemente: “Qui vi troverete bene perché starete con gente buona.” Mi salutò lasciando i saluti per i miei genitori, si ricordò anche di mio fratello dicendomi: “Dì a Dani che ripari il fanale della moto, perché di notte senza luce è pericoloso viaggiare.” Quando mi guardai intorno e il mio sguardo vide la realtà, confesso che fui aggredita da un senso di sgomento. Si trattava di ospitare una coppia di sposi con due persone anziane, che risultavano poi essere i genitori della signora Marta e otto ragazzini che in fila formavano il profilo di una scala. Tra i fagotti che in ordine sparso coprivano quasi totalmente il marciapiede davanti alla porta principale di casa, ne spiccava uno per così dire un po’ più accuratamente preparato e accomodato in una cassettina di quelle usate per la frutta. Marta si rese conto della mia curiosità e immediatamente con un certo orgoglio mostrò il contenuto, ossia lasciò scoperto il volto dell’ultimo nato, un vero gioiellino dalle guance brune, due belle labbra color di rosa e due occhioni neri e rotondi come ciliegie. Di colpo sentii che quella gente avrebbe portato nella nostra casa allegria e felicità.

Quel giorno lavorai quanto non avevo mai lavorato in vita mia. Marta mi aiutò tutto il tempo e in poche ore ci sentimmo già amiche. I ragazzi tutti fecero ognuno la loro parte. Alla sera tutto era pronto tutti mangiammo abbondantemente e a ciascuno un comodo letto assicurò una notte di meritato riposo. Forse l’unica che non dormì, fui io, rimasi per ore prigioniera di un pensiero e assillata da mille domande. Svanirono i pensieri e incontrai ogni risposta all’alba quando affacciandomi al balcone vidi i miei piccoli ospiti camminare sorridenti per il giardino. Quando scesi, Marta aveva già fatto colazione con gli altri e aveva lasciato a parte un vassoio per me. Parlammo molto quel giorno e i giorni che seguirono. Per me non furono mai degli ospiti ma amici o forse parenti. I ragazzi finirono per sembrarmi tanti fratellini minori. Marta e suo marito come fratelli maggiori e gli altri, che tutti chiamavano “Nonni”, finii anch’io per chiamarli Nonno e Nonna.

L’ospitalità comincia come un gesto di fratellanza, di solidarietà e quasi appare come offerta di semplice aiuto a un bisogno. La vera ospitalità è invece il vero spirito che unisce gli uomini e, al disopra di tutti e di tutto, li fa sentire fratelli.

Luisa      (Paraguay)

 

Da noi un ospite è un angelo

L’ospitalità da noi è considerata molto importante, da essa si può vedere l’amore che le persone hanno verso chi si presenta alla loro casa. Da noi si offre sempre un regalo all’ospite quando va via perché, come dice la lettera, da noi un ospite è un angelo che, dopo la sua partenza, lascia a noi le sue benedizioni. Ma in particolare voglio bene agli ospiti e ricordo che quando ero piccola davo ai nostri ospiti un mio giocattolino; così ero sicura che non mi avrebbero dimenticata.

Marta      (Messico)

  

 


 

 

Terza Lettera

 

Vorrei parlarti di un’altra differenza, una differenza che può non apparire tanto rilevante, ma che denota invece una diversità di tradizioni e di abitudini importanti e significative. Alludo al cibo, alla sua varietà e al suo significato particolare. Spesso un certo piatto, un certo sapore, può richiamarti in modo immediato la tua terra d’origine, la tua famiglia, una persona cara. Anche a me succede; quando raramente mi capita di passare per il Paese dove sono nata, acquisto il pane locale e ciò mi procura gioia e mi riporta a ricordi di tempi passati. Quando ero bambina, una prozia, sorella della nonna materna, faceva il pane in casa e poi lo cuoceva in un forno a legna. Il ricordo di quella lunga lavorazione, di un pane che aveva una forma, una fragranza, un sapore particolari, mi richiama un passato legato a cose buone ed essenziali più semplici. Quand’ero piccola, dietro la nostra casa c’erano tante piante da frutto e un orto ricco di verdure di ogni tipo; i sapori di allora sono per me indimenticabili. A quel tempo erano poco diffusi i concimi chimici e quasi tutto, perciò cresceva seguendo ritmi più naturali certi profumi certi sapori richiamano alla mente un mondo contadino in cui la natura era più intatta e più rispettata.

Passando ai giorni nostri, in Toscana e altrove avrai notato tante piante d’ulivo, da cui si ricava l’olio d’oliva, condimento base di molti piatti della cucina italiana. Fino a pochi anni fa uno dei prodotti principali dell’agricoltura era costituito dal frumento da cui si ricava la farina per la produzione di pane e pasta, base principale della nostra alimentazione. La diffusa coltivazione dell’uva, in tutt’Italia, consente infine la produzione di ottimi vini che accompagnano quotidianamente i pasti di quasi tutti gli italiani. Questi elementi base (pane, pasta, olio, vino) ci accomunano a molti altri Paesi del Mediterraneo che hanno apprezzato e apprezzano tuttora certi prodotti della terra, dando loro a volte un valore sacro (almeno alle origini). Gli antichi Greci ritenevano l’ulivo una pianta talmente particolare da consacrarla a una importante dea dell’Olimpo: Atena.

Il pane e il vino costituiscono poi elementi essenziali per la religione cristiana che li utilizza nella celebrazione della Messa. Per noi italiani il mangiare assieme rappresenta un segno di unità, di festa, di gioia; è un ritrovarsi con le persone care di famiglia o con gli amici.

Invitare una persona a mangiare a casa propria rivela quindi una volontà di amicizia, un‘apertura, un desiderio di condividere e di costruire un rapporto più profondo. Spesso i giovani d’oggi si ritrovano assieme a mangiare una pizza in qualche locale pubblico; ciò costituisce un bisogno di relazione e di contatto, ma l’invitare qualcuno a pranzo o a cena a casa propria rappresenta un legame maggiore che è riservato a pochi, qualcosa di te, della tua casa, della tua vita, del tuo ambiente viene offerto all’altro; accetti che l’altro entri nei tuoi spazi nel tuo territorio; non ne hai quindi paura, non lo vedi come un invasore, come qualcuno da distanziare e da escludere.

Essere seduti attorno alla stessa tavola ti apre alle confidenze, al dialogo, all’ascolto, all’incontro. Sei d’accordo? Anche per voi è importante prendere il cibo assieme? Anche per te certi cibi certi sapori sono significativi? A che cosa ti fanno pensare? Anche per te il cibo costituisce un legame con la tua famiglia e la tua terra?

Per concludere dirò che con molto piacere ho assaggiato a volte piatti tipici peruviani, libanesi o marocchini. Accettare quei cibi è stato come accettare più pienamente le persone che me li offrivano, il loro mondo, i loro gusti, le loro tradizioni. È bello quando questo gesto non si riduce a un gesto di moda facile, ma quando diventa relazione, amicizia, scambio vero fra persone.

Una insegnante del corso

 

 

Risposte

 

Basta chiudere gli occhi, lasciar volare la mente e sentire il profumo di questo pane

Come tutti i Paesi di questo mondo, anche noi in Iugoslavia abbiamo i nostri piatti tradizionali. I piatti che si usavano per diverse feste. Le feste che sono una tradizione da anni, da secoli. La festa di Natale, di Pasqua, dei santi della famiglia, del matrimonio, del compleanno ecc. Questi piatti sono diversi e dipendono dalla stagione.

Per Natale si preparano due piatti che si chiamano “sarma” e “podvarak”. Sarma sono una specie di involtini di cavolo, ripieni di carne, cipolla e riso. “Podvarak” è un piatto che si fa con il cavolo tagliato a pezzi, con cipolla e carne secca. Questo piatto a casa mia si fa anche per la festa di San Michele Arcangelo, il 21 novembre. È un piatto tipico per l’inverno. In primavera e in estate si fa un altro piatto con il cavolo fresco, si chiama “bosanski lonac” o pentola di Bosnia. Si usa del cavolo fresco tagliato a pezzi grossi, tanta cipolla, carote, una costola di sedano, spezzatino di carne, pomodori, prezzemolo e sale, olio, poca acqua e un bicchiere di vino bianco; deve cuocere piano piano. Un altro piatto tipico del nostro Paese sono i fagioli al forno, si chiama “prebranac”. Questi piatti si mangiano con tante insalate. Una speciale è “lucena paprika” o peperoni con aglio, prezzemolo, olio, sale, aceto. Ci sono anche tanti dolci e torte. Con tutti questi piatti c’è anche un pane diverso che si fa con la farina di granturco e si chiama “proja”. Ha un odore unico. Basta chiudere gli occhi, lasciare volare la mente e sentire il profumo di questo pane.

Dovunque tu vai questi profumi ti seguiranno. Tutti questi piatti sono le nostre radici che porti con te dovunque vai.

Miriana      (Iugoslavia)

 

Identificare ogni posto con il suo cibo

Anch’io penso che il cibo diverso costituisca una differenza fra me e te, però secondo me questa differenza è motivo di riconoscimento della mia identità e della mia cultura e perciò di ricchezza personale. Anch’io ho bei ricordi in relazione al cibo; ricordo che quando ero piccolissima mio nonno d’estate portava a tutti i nipoti una torta bianca (fatta di zucchero mi immagino) per fare merenda. Questo era sempre motivo di gioia. Poi se non c’era la torta ci portava “churros” (dolci fritti tipo “frate”) o patatine fritte. Nella casa dei nonni ci incontravamo tutti, era una villa grande con un cortile pieno di piante e di spazio per giocare. Morto mio nonno questa bella tradizione sparì, forse perché era troppo difficile mangiare quelle cose che ti ricordavano la persona che non c’era più. Dopo un po’ di tempo, quando eravamo già adolescenti, mio padre ci ha stupito un giorno portando la merenda “del mio nonno” e recuperando un bel ricordo. D’altra parte, da quando sono qui in Italia mi sono resa conto che mi piace identificare ogni posto con i suoi sapori.

Di solito quando sento mia madre al telefono le chiedo qualche ricetta che ( noi facciamo usualmente a casa. Un giorno mi è venuta la voglia di mangiare una zuppa spagnola (di quelle che devono cuocere un sacco di tempo nella pentola) e le ho chiesto la ricetta. Le ho detto che gli ingredienti non li avrei trovati qui in Italia e lei mi ha risposto che questi ingredienti non si trovavano neanche nel Nord della Spagna e che se volevo me li spediva. Dopo un secondo di esitazione ho detto di no, forse perché sarei stata triste, forse perché preferisco identificare ogni posto con il suo cibo.

Rachele       (Spagna)

 

I piatti possono sembrare strani e insensati, ma se li assaggiate vi delizieranno

Nel mio Paese, il Kenya, il cibo è molto differente da qua. Prima di tutto, la mattina si mangia poco latte o tè con brioches locali, pan carré con burro e marmellata. A mezzogiorno invece si mangia molto di più; solitamente si cucina un piatto solo ma molto sostanzioso. Essenziale è il riso, accompagnato da sughi deliziosi o cucinato con carne e patate, il “pilao”, cucinato solitamente per occasioni speciali e il venerdì; si può avere anche riso cucinato con verdure e accompagnato dal pesce.

Molto usata è anche la polenta di farina bianca, accompagnata da carne, pesce fritto, verdura. Il pane non è molto usato, al suo posto ci sono i “chapati” e i “tanduri”, focaccine mangiate insieme alla carne, al pesce, a sughini vari e con i fagioli al latte di cocco.

Quando arrivano gli ospiti, allora si preparano i “samosa”, fagottini di carne e cipolla, i “cababu”, polpette di carne piccole e molto piccanti, “mschakiki”, carne speziata alla griglia, il pollo al marsala, esageratamente piccante, i “bagia”, frittelline di lenticchie o di patate, i “mahambri”, una specie di brioches vuote dentro, a forma di triangolo, e tanti altri dolcetti fra cui il dolce alle uova.

Sono usate le spezie e il peperoncino in gran quantità; a differenza di qui, si cucina essenzialmente con il carbone... I piatti possono sembrare strani ed insensati, ma se li assaggiate vi delizieranno.

Selima       (Kenya)

 

Una tavola imbandita unisce e rallegra

E certo che il modo di mangiare segna una notevole differenza fra i diversi popoli. Il cibo è da considerarsi una vera e propria tradizione per cui non è raro sentire a tavola un succedersi di commenti pro o contro determinati piatti. Sappiamo che alla gente di origine araba non è permesso mangiare carne suina, altri popoli non mangiano carne di vacca e quello che per tutti è il pane quotidiano è profondamente differente da una parte all’altra del mondo.

Sembrerebbe che le differenti maniere possano rappresentare un motivo di divisione fra popoli diversi, mentre è sicuramente certo che niente di meglio di una tavola imbandita unisce e rallegra tutti i commensali. Personalmente devo ammettere di avere incontrato alcune perplessità davanti a un piatto del quale neppure conoscevo gli ingredienti, al punto di dover fare uno sforzo di volontà per ingerire il primo boccone.

Ora però posso affermare con tutta sincerità che la cucina italiana è veramente buona. Ciò non toglie che venga più volte assalita dal desiderio di riassaporare un piatto tipico del mio lontano Paese e farlo assaggiare ai miei parenti ed amici italiani. Così penso un giorno di celebrare una festa familiare proponendo a pranzo un “asado alla braza”, “tallarines” con pollo, la “sopa paraguaya” e tanti altri piatti seguiti da un delizioso “postre” a base di frutta tropicale.

Forse non a tutti potrebbero piacere certe mie specialità, però sono sicura che, come sempre, uniti a tavola le ore trascorrerebbero felici e con allegria per tutti.

Gloria        (Paraguay)

 

Il miglior piatto di qualsiasi pranzo è il sorriso dei commensali

Ero appena arrivata in Italia che già mi sentii travolta dagli obblighi derivati da inviti, prese di contatto con amici e familiari che ripetutamente esternavano il desiderio di conoscermi o di rivedermi. La conversazione di approccio terminava invariabilmente con un invito a pranzo o a cena. Confesso il disagio nei miei primi pranzi in Italia: tutto mi sembrava impossibile e non incontravo mai la certezza nell’uso delle posate e rimanevo addirittura sconvolta al momento di dare giudizi sui sapori e i gusti dei cibi e delle bevande. Ricorderò sempre quando, assaporando un boccone di cinghiale arrosto, a una zia che volle chiedermi un parere al riguardo dissi, tra le meraviglie di tutti, che mai fino ad allora avevo assaggiato un “cavalì tan gustoso”.

Da quel momento dovetti così raccontare quelle che ancora oggi continuo a chiamare “le nostre usanze”. Stupendo i diversi commensali descrissi, con la massima abbondanza di dettagli, le strepitose riunioni gastronomiche che in Paraguay si celebravano con qualsiasi pretesto e riunivano famiglie, parenti, amici e membri della stessa comunità. Ricordo che dovetti descrivere minuziosamente piatti tipici come “asado alla parrilla”, “sopa paraguaya”, “bori bori”, “caldo ava”, “chipa so’o” e tante altre specialità gastronomiche sudamericane. Lo stupore generale toccò il culmine quando cominciai a parlare o, per meglio dire, mi accinsi a descrivere i gusti e la composizione dei dessert. Naturalmente tutti o quasi composti a base di frutta tropicale.

Qualcuno, forse tra i più golosi, dovette sentirsi l’acquolina in bocca quando descrissi il sapore del “dulce de mani”, e del “dulce de mamon y avacate”; a commento generale mi fu posta la domanda: allora tu troverai difficoltà ad abituarti al nostro sistema di mangiare e ai nostri cibi? Non trovai miglior risposta di un appassionato elogio ai piatti tipici italiani menzionando, con abbondanza di elogi, tagliatelle, tortellini, lasagne, pesci fritti e altro. Ricevetti applausi quando, portando il bicchiere alla bocca, qualificai il vino toscano come il miglior vino del mondo.

A tavola di certo non mancano mai le polemiche su gusti, sapori e usanze, però sempre al momento del caffè tutti ci troviamo concordi: niente è più bello che riunirci intorno ad una tavola imbandita dove i parenti rinnovano i loro vincoli di sangue, gli amici si sentono più amici e i conoscenti sentono come la necessità di affratellarsi agli altri. Credo che il miglior piatto in qualsiasi pranzo sia il sorriso dei commensali, condito da sguardi carichi di sentimenti nobili e sinceri.

Luisa     (Paraguay)

  

 


 

 

 

Quarta Lettera

 

Oggi voglio parlarti degli anziani, in particolare di quale relazione ci sia fra  loro e la nostra società. Spesso, forse, ti sarai meravigliata del gran numero di persone anziane presenti nel nostro Paese. Non sempre nel passato è stato così. La medicina moderna, le migliori condizioni di vita e di alimentazione hanno consentito un notevole prolungamento della vita umana; in Italia la speranza di vita media è di circa ottanta anni per le donne, per gli uomini di qualche anno meno.

Un altro aspetto che spesso meraviglia molte persone che provengono dal Sud del mondo è la presenza, nei Paesi e nelle città, di molte case di riposo che costituiscono una specie di pensioni-alloggio destinate esclusivamente a chi è avanti con gli anni. Ciò può scandalizzare quanti hanno altri modelli culturali, altri modi di vivere, altri tipi di relazione con gli anziani. Non voglio tentare di giustificare 1€ situazioni presenti nella nostra società, ma vorrei farti comprendere come e perché certi fenomeni si sono potuti verificare.

Quand’ero piccola io, anche nella mia famiglia c’erano persone anziane e per di più malate. Ricordo che una zia, colpita da ictus cerebrale e completamente priva di autosufficienza, per anni venne curata ed assistita dalle sorelle e dai nipoti Ma la nostra era una grande famiglia, composta da tante persone disponibili, non impegnate in lavori fuori casa; il loro tempo era dedicato completamente alla famiglia, alle sue esclusive necessità. Era considerato assurdo e inconcepibile abbandonare uno di casa in mano ad altri, il peso della situazione non era però addossato esclusivamente su di una sola persona, ma equamente condiviso da molti che in questo modo riuscivano a gestire bene la cosa. C’era interesse, attenzione per i più deboli che così erano protetti, assistiti, curati da tutta la famiglia in cui gioie e dolori si intrecciavano quotidianamente. Abbandonare un vecchio non era possibile, l’amore per lui diventava gesto concreto di assistenza, giorno dopo giorno. Non era un peso insostenibile; in questo modo si dava spazio, tempo e attenzione a chi nel passato aveva donato qualcosa o tanto agli altri e alla famiglia, gli si era riconoscenti accompagnandolo fino alla fine.

Ma in questi ultimi trenta-quarant’anni, in Italia la famiglia ha subito decise trasformazioni; non esistono quasi più le vecchie famiglie allargate di tipo patriarcale- contadino. Ormai i nuclei sono ridotti a genitori e figli. Spesso negli appartamenti moderni non c’è spazio per altre persone, come ad esempio i nonni.

D’altra parte, frequentemente la vita di oggi costringe entrambi i genitori al lavoro esterno, non consentendo così di poter tenere in casa un anziano malato, bisognoso di continua assistenza. Può succedere a volte che i figli siano costretti a mandare in una casa di riposo un genitore malato oppure, nel migliore dei casi, a lasciarlo a casa sua assistito continuamente da persone estranee alla famiglia. Si tratta comunque, in quest’ultimo caso, di una situazione più accettabile per un anziano che così non abbandona il suo ambiente, la sua casa, le sue abitudini.

Spesso si dice che nelle società contadine i vecchi erano più considerati e rispettati e che nella nostra società gli anziani non contano perché non producono più e quindi costituiscono un peso sempre più gravoso per la società nel suo complesso. Fino a che sono autosufficienti i vecchi vengono tollerati e perfino accettati se si rendono utili in qualche modo; quando perdono l’autosufficienza fisica o presentano disturbi mentali vengono emarginati, poco considerati, mal sopportati. Si tratta di una situazione che riguarda un p0’ tutti gli anelli deboli della nostra società: i disabil6 i malati mentali, i poveri. Siamo in una società che ci vuole giovani, efficienti; produttivi, sani di mente e di corpo.

Chi è diverso molte volte, nei fatti; è “tagliato fuori” considerato come uno scarto, non valorizzato, mal sopportato. A questo punto diventa ancora più necessario recuperare il senso autentico della vita, partendo proprio dai meno garantiti. Comportarsi da esseri umani significa accogliere, comprendere, non trascurare, non abbandonare ma stare accanto.

Forse tu o forse voi avete, in umanità, qualcosa da comunicarci Forse per voi la vita ha altri significati, forse la compassione, la vicinanza, la condivisione rappresentano ancora valori importanti e irrinunciabili Raccontami qualcosa in questo senso. Grazie. Aiutiamoci a non perdere gli aspetti migliori dell’essere umano; abbandonando e non considerando i più deboli condanniamo irrimediabilmente tutti noi, privando di ricchezza, di unità e di senso la vita intera.

Una insegnante del corso

 


Risposte

 

Nel mio Paese non ci sono tanti anziani

Vorrei dirle che nel mio Paese non ci sono tanti anziani perché molte persone non raggiungono l’età della vecchiaia, però ci sono degli anziani che generalmente vengono portati in una casa di riposo mentre altri, ma pochi, restano in famiglia e vengono trattati molto bene.

Vorrei raccontarle che nel mio Paese, il Messico, quelli che lavorano devono pensare da soli alla loro vecchiaia perché quando finisce il rapporto di lavoro, il lavoratore non riceve nessuna pensione e, se non vi ha pensato prima, si ritrova senza niente e non sa come andare avanti.

Anche la situazione degli handicappati è simile a quella degli anziani. Infatti la maggior parte delle famiglie preferisce affidarli alle case di riposo.

Marta       (Messico)

 

Gli anziani rappresentano la sorgente dalla quale abbiamo bevuto saggezza e amore

Quello degli anziani nella nostra società è un argomento “caldo” di cui ultimamente si discute molto. Se ne parla sì, ma si fa poco o forse si reagisce in modo sbagliato.

Non dobbiamo dimenticare che quegli stessi anziani di cui stiamo parlando sono i nostri genitori che fanno parte di noi giovani o forse è più giusto dire che noi facciamo parte di loro. Nel mio Paese c’è un detto: “Se vuoi che le persone si comportino bene con te, in tale modo ti devi comportare anche tu con loro.” Mi preoccupa non il fatto che i figli, costretti da certe circostanze, mandino in casa di riposo un genitore bisognoso di continua assistenza, oppure lo lascino a casa e paghino una persona per assisterlo, no, mi preoccupa ben altro: la lontananza e l’abbandono nel senso affettivo.

Anche nel mio Paese ci sono case di riposo e quando penso a queste persone là dentro posso immaginare il dolore che molti di loro sentono. Loro hanno perso non solo la loro giovinezza e salute, ma molto spesso anche l’affetto dei loro familiari. Poche visite per poco tempo, poco amore, poco rispetto, poca sensibilità. Gli anziani rappresentano il nostro passato, la nostra memoria, la sorgente dalla quale noi abbiamo bevuto la saggezza, l’amore, l’affetto per lunghi anni. E ora, per non perdere tutto questo, per salvare la nostra dignità, facciamo loro vedere e sentire quanto gli vogliamo bene e che la loro vita non è stata sprecata nel crescere figli come noi.

Villy        (Bulgaria)

 

La felicità per un anziano risiede nella certezza degli affetti

In questo ultimo secolo che ormai sta terminando è cambiata molto quella che è sempre stata considerata il fondamento della civiltà: la famiglia. La famiglia ha sempre rappresentato le basi sulle quali appoggiare lo sviluppo di un popolo, di una nazione e della stessa civiltà umana.

Però la famiglia, con il cambiar dei tempi, sempre ha assunto aspetti diversi alterando naturalmente i risultati delle sue funzioni. Di questo possiamo renderci facilmente conto sfogliando un album di foto ricordo attraverso il quale meraviglia il confronto fra noi moderni e i nostri antenati.

La nonna sembra ancora giovane, così pure il nonno, però sono entrambi circondati da quattro o cinque giovani che naturalmente rappresentano il frutto del loro amore.

Per questi nonni i figli erano una benedizione di Dio e rappresentavano la loro vera ricchezza; oggi le cose sono un po’ cambiate, senza cercare, in una inutile polemica, se in male o in peggio; la ricchezza di una famiglia viene calcolata dalla quantità di elettrodomestici che hai nella casa, dal modello dell’auto di cui disponi, dalla qualità dei mobili che arredano le tue stanze e dal tipo di vacanza che potrai scegliere nel prossimo periodo. Nessuno si preoccupa di chiederti quanti figli hai e nessuno ti chiede notizie di tuo padre, di tua madre o del suocero e della suocera.

Sembra proprio che il concetto di famiglia vada diminuendo in accordo col numero dei suoi componenti. Così meno figli è uguale a maggiore libertà e per quanto riguarda gli anziani il maggior problema è quello di dar loro sufficiente autonomia e benessere.

Oggi qualsiasi anziano può godere di una certa autonomia disponendo di pensione, però il benessere non si può comprare come si compra un pasto quotidiano e un alloggio dove vivere e riposare.

Il benessere degli anziani è la presenza di affetti legati al passato e proiettati nel futuro. Credo che la felicità per un anziano risieda unicamente nella certezza degli affetti che lo mantengono legato ai propri figli e nel piacere di vedere nei figli dei propri figli la proiezione di se stesso nel futuro dell’umanità. La famiglia si compone di tre, difficilmente di quattro generazioni, che io credo per nessun motivo dovrebbero concludersi in forma separata. Per questo è auspicabile che mai ci sia per nessun motivo separazione fra membri di una stessa famiglia indipendentemente dal fatto che differenti condizioni fisiche o mentali, dovute all’età, possano determinare rapporti diversi.

Gloria      (Paraguay)

 

Esiste molta solitudine

In questa breve lettera voglio manifestare quello che realmente penso. E certo che la società lascia molto a desiderare soprattutto quando si tratta di persone della terza età. La vita di queste persone sta intimamente in relazione con la società nei suoi differenti aspetti. Quando gli anziani convivono con persone estranee al proprio ambito famigliare, non c’è dubbio che soffrono un cambiamento, ma nella misura in cui passa il tempo si adattano alla nuova situazione.

Generalmente le persone che lavorano con anziani fanno parte della loro vita. Sono considerati e accettati dalla società fino agli ultimi giorni della vita degli anziani. L’autosufficienza rappresenta un vantaggio, se gli anziani sono autosufficienti possono contare su se stessi, anche se in casa non sono soli. Purtroppo però esiste molta solitudine per molti anziani.

Per finire devo aggiungere che sono d’accordo che la società ha bisogno di persone giovani, efficienti, in perfetta salute fisica e mentale, però credo sinceramente che un poco d affetto e di comprensione basterebbe perché molte persone anziane possano sorridere e sentirsi contente per lo meno in quei pochi anni di vita che rimangono loro.

Olga        (Perù)      (traduzione dallo spagnolo)

  

 

 

 

 

Quinta Lettera

 

Come il tuo Paese, che sicuramente possiede una storia che spero tu mi racconterai anche l’Italia ha radici antichissime. Percorrendo le strade del nostro Paese avrai notato certamente dei castelli in cima ad alcune alture, vecchi palazzi e chiese antiche, rovine di templi, ponti e strade che hanno spesso migliaia di anni. L’Italia ha una storia lunga e complessa. Roma, la capitale, ha quasi tremila anni di storia; conserva anfiteatri romani, rovine di templi, archi di trionfo di antichi imperatori, piazze, mercati e tribunali costruiti prima della nascita di Cristo. Molto significativa ed interessante, se si parla dell’epoca degli antichi romani, appare anche una cittadina, vicina a Napoli, che si chiama Pompei. Fu sepolta circa 2000 anni fa dalle ceneri e dai lapilli di un‘eruzione vulcanica; grazie a quell’evento possiamo ammirare nella sua completezza un‘intera cittadina romana conservata quasi perfettamente, con le sue case popolari, le sue ville, i suoi negozi, i suoi edifici pubblici i suoi teatri, le sue terme. È veramente straordinario passeggiare per quelle strade lastricate, visitare quelle case così ben conservate, ricche di affreschi dai colori vivaci. E come un‘immersione in un mondo lontano.

Ancor prima dei Romani, l’Italia era già abitata da popolazioni che avevano una loro cultura e civiltà. Ti nomino ad esempio gli Etruschi, una popolazione che abitava in Toscana e anche in altre zone d’Italia. Nella nostra regione molte città sono costruite su antiche città etrusche; Volterra ad esempio conserva ancora le mura di quell’epoca lontana. Anche nel Sud si possono ammirare opere d’arte di immenso valore; a Paestum, vicino a Salerno, e ad Agrigento, in Sicilia, si trovano templi greci pari in bellezza ad analoghe costruzioni presenti ad Atene e in altre città della Grecia.

Molte città toscane ebbero un grande sviluppo verso il 1200-1300 quando si ampliarono i commerci della lana, della seta e di altri tessuti. Ognuna era gelosa della propria indipendenza conquistata da poco; aveva leggi che tutti gli abitanti erano tenuti a rispettare. In questo periodo, chiamato Medioevo, qui in Toscana, Firenze, Lucca, Pisa, Siena ebbero il loro massimo splendore. Firenze poi ebbe uno sviluppo ancora maggiore nei secoli successivi (1400-1500). Tutte queste città hanno chiese, piazze e palazzi molto caratteristici e antichi. Nel Veneto puoi ammirare una delle città più interessanti e particolari d’Italia, Venezia, costruita su una serie di isolette della laguna e ricolma di tesori artistici e ambientali.

Tutta l’Italia è come un grande museo e le sue bellezze e ricchezze culturali rappresentano un patrimonio di tutta l’umanità, non sono esclusivo possesso di noi italiani che spesso forse non sappiamo apprezzare e difendere adeguatamente ciò che si trova nel nostro territorio e che caratterizza il nostro passato. Spesso queste lontane radici dànno Identità ad un popolo, lo rendono orgoglioso, trasmettendogli il senso di appartenere a una terra e a una cultura. Perdere questo legame è come pretendere di essere una pianta senza radici, riducendosi ad individui senza storia, senza passato, perciò senza prospettive e senza futuro. Credo che un‘opera d’arte, quale una costruzione, una statua, un dipinto, possa suscitare in un' anima sensibile le stesse sensazioni provocate da uno spettacolo della natura. L’armonia e la bellezza destano sempre stupore e meraviglia. Si tratta di un linguaggio universale che tutti possono comprendere e che in tutti fa emergere emozioni e sensazioni particolari. Anche nel tuo Paese esistono città d’arte importanti? Le hai visitate? Che impressione ne hai avuto? Da voi ci sono rispetto e considerazione per le cose antiche? E viva in voi la memoria del vostro passato?

Una insegnante del corso

 

 

 

Risposte

 

Qualcosa di eccezionalmente bello nelle trame e nei colori di un tappeto tessuto a mano

Vivo in Italia da poco tempo, sufficiente però per comprendere quanto bello sia questo Paese, ricco di storia e appartenente ad una civiltà tra le più importanti.

Ancora non ho avuto il tempo di conoscere, visitandole direttamente, tutte le regioni e le città più importanti dell’Italia, però dal poco che ho visto e da quello che ho potuto apprendere leggendo e guardando la televisione, credo che questo Paese rappresenti un vero e proprio patrimonio artistico e culturale dell’intera umanità. Ogni città è simbolo e storia di epoche remote che ci accompagnano fino ai tempi moderni. Abbiamo testimonianze dalla nascita dell’impero romano fino ad oggi e molti reperti archeologici ci permettono di conoscere civiltà ancor più remote. Tutto questo è veramente un patrimonio storico e culturale che non appartiene solo al popolo italiano, è un patrimonio di tutta l’umanità, nel quale specchiarsi e riconoscersi.

E certo che in maggior o minor scala questa stessa cosa è valida per tutti gli altri popoli del nostro pianeta. Personalmente non posso e non credo che potrò mai dimenticare la mia origine americana. Per molti europei è comune associare il concetto di America a quello di nuovo mondo. Per noi americani anche la storia dell’America viene associata alla storia di civiltà antiche e progredite. Sarebbe lungo e difficile parlare in forma esauriente dei Maya, degli Aztechi e degli Incas. Questi popoli rappresentano le origini del moderno popolo americano e l’attuale americano è il risultato della fusione di queste antiche civiltà con quella europea che venne a colonizzare i vasti e ricchi territori di quello che chiamarono il “Nuovo Mondo”.

La vastità dell’America non ha mai permesso ai suoi abitanti la formazione di enormi e duraturi imperi, anche perché non sorretti da grandi masse di popolazioni che erano costrette a vivere prive di contatti tra di loro, anche e soprattutto per le grandi distanze, le difficoltà geografiche e climatiche. Però oggi l’America si va rapidamente formando e mostra al mondo intero nuovi stati e nuovi popoli, ognuno dei quali manifesta una propria cultura e civiltà.

Mi piacerebbe parlare più a lungo del mio Paese, il Paraguay, ma non è facile in poco spazio e tempo far conoscere la storia de “los indios”: Guaranies, Ava, Quechua e tanti altri che ebbero una civiltà scaturita dal diretto contatto con la natura e seppero poi approfittare dell’insegnamento dei colonizzatori per costruire cattedrali, città e palazzi nel mezzo delle loro selve più volte definite inospitali. Oggi visitare una località sudamericana credo possa davvero rappresentare per qualsiasi europeo una indimenticabile e meravigliosa esperienza. Troverà qualcosa di eccezionalmente bello nelle trame e nei colori di un tappeto tessuto a mano, come rimarrà estasiato ammirando l’immagine di un santo scolpito in un pregiatissimo legno tropicale. Questo mio ipotetico turista non potrà rimanere insensibile visitando i resti delle chiese e delle case che costituirono le missioni dei gesuiti.

Anche il nuovo mondo ha una lunga storia e un grande patrimonio artistico e culturale che lo identifica, che sappiamo di non potere né dovere ignorare, né tanto meno dimenticare.

Gloria      (Paraguay)

 

 

Un’isola di legno immersa in un mare di verde

Sono nata in un piccolo Paese dell’Europa orientale, un Paese con una storia direi un po’ sfortunata, come tanti altri in tutto il mondo. Per la gran parte della sua esistenza la Bulgaria è stata dominata da diversi imperi: quelli dei romani, dei bizantini e dei turchi. Forse per questo il sentimento nazionale e il desiderio di prosperità nazionale sono stati da sempre così forti.

Il mio Paese è situato nella penisola balcanica, è confinante a Nord con la Romania, a Sud con la Grecia e la Turchia, a Ovest con la Serbia e la Macedonia, a Est è bagnato dal Mar Nero. La Bulgaria fu creata nel 681 dopo Cristo dall’unione delle tribù dei protobulgari con le popolazioni slave. Per capitale del primo regno bulgaro fu scelta una località chiamata Pliska, oggi famosa per i resti archeologici delle mura difensive e il grande palazzo reale. Nel nono secolo i fratelli Cirillo e Metodio, allievi della scuola di Solun (Tessalonica), furono accolti in Bulgaria dove tradussero la bibbia in paleoslavo, crearono l’alfabeto cirillico e costituirono un gruppo di allievi i quali, dopo la morte dei maestri, continuarono la diffusione dell’alfabeto. Così per la Bulgaria cominciò un periodo di evangelizzazione.

Il regno ebbe l’apogeo con la venuta del re Simeone (inizi del decimo secolo) quando i suoi confini toccarono tre mari. Sottomessa più tardi dai bizantini per quasi duecento anni, la Bulgaria tornò indipendente nel dodicesimo secolo, ma alla fine del quattordicesimo cadde sotto il dominio turco per cinquecento lunghi anni, nei quali lo sviluppo culturale ed economico si fermò, soffocato dai tentativi da parte dell’impero turco di convertire i cristiani alla religione musulmana.

Nel 1878, dopo vari tentativi rivoluzionari e con l’aiuto della Russia, la Bulgaria ottenne la sua indipendenza. Con la prima guerra mondiale il Paese perse gran parte della Tracia occidentale, che fu assegnata alla Grecia.

Nel nostro territorio furono scoperti molti resti dell’antichissimo popolo dei Traci che fu sottomesso dagli Ioni, popolazione della Grecia; la Bulgaria fu poi conquistata da Filippo il Macedone che fondò Filipopolis, oggi Plovdiv, la città dove sono nata. In seguito fu occupata dai Galli, dai Romani e dai barbari. Nel dodicesimo secolo venne popolata dalle tribù slave; la storia successiva .è quella che ho raccontato in precedenza.

In Bulgaria sono state scoperte tombe ricche di affreschi e di utensili e il famoso tesoro dei Traci che è stato esposto a Firenze nel 1998. Nel mio Paese si possono ammirare anche i resti dei tempi dei romani, come per esempio l’antico anfiteatro a Plovdiv, città famosa anche per il suo bellissimo centro storico, dove sono conservate tutte le case e le strade come erano nel passato, formando un vero museo all’aperto. Sono molto particolari e con una storia interessante anche le città di Veliko Tarnovo (che fu capitale del terzo regno bulgaro, con il suo palazzo reale sulla collina Zarever), Koprivstiza e Sofia, capitale della Bulgaria dal 1978, nota per la chiesa sotterranea di Santa Petka (secc. XIV-XV) e la basilica bizantina di Santa Sofia. Sono interessanti da visitare anche i musei archeologico ed etnografico e la galleria nazionale d’arte.

Shipra, un’altura vicina al famoso passo con lo stesso nome nei Balcani, è la montagna dove nella seconda metà del XIX secolo ci fu la battaglia decisiva fra Turchi e rivoluzionari bulgari che cambiò la nostra storia.

Oggi in memoria dei caduti c’è una bellissima chiesa con le cupole dorate, simbolo del coraggio dei difensori del passo i quali, dopo aver finito le munizioni, usarono i sassi e dopo che ebbero finito anche questi buttarono dalla collina i corpi dei compagni morti, pur di non cedere il passo che avrebbe impedito ai Turchi di unire le forze del Nord e del Sud. In questo modo le truppe militari turche, indebolite e divise dai Balcani e dai suoi difensori, subirono una sconfitta da parte dei Russi passati dal Danubio.

Non si può parlare della storia bulgara senza nominare anche il monastero di Rila (sotto la protezione dell’Unesco) che ha avuto un grande ruolo nella cosiddetta battaglia religiosa e culturale durante il dominio turco. È interessante e particolare la sua costruzione, un’isola di legno immersa in un mare di verde. Dietro le mura del monastero sono conservati antichissimi documenti e libri, e il primo libro scritto in bulgaro, la storia slavo-bulgara. Sono conservati anche utensili e macchine usate in tempi passati. Fanno parte del nostro patrimonio artistico altri monasteri come quello di Batchkovo dell’undicesimo secolo, quello di Troian ecc.

Nel Novecento con i forti movimenti migratori nasce un sentimento complicato. A quale terra apparteniamo? A quale cultura dobbiamo essere fedeli?

Penso che è meglio non dimenticare da dove proveniamo, non dimenticare le nostra storia e la nostra cultura. È il nostro passato e da quello dipende il nostro presente e il nostro futuro. La storia e la cultura del nostro Paese in un certo modo determinano il carattere e la propria personalità, danno un senso di sicurezza e di appartenenza. Questo è un importante punto di riferimento che ci aiuta a costruire solidi ponti verso altri Paesi e culture. E importante anche la nostra capacità di vedere, conoscere e imparare, solo così possiamo arricchire il nostro punto di vista e la nostra cultura.

Ogni Paese ha una storia e un patrimonio culturale che merita di essere capito e apprezzato. Bisogna ricordare le cose belle e le cose brutte della storia anche per poter creare altra bellezza e per poter evitare di ripetere gli errori del passato.

Villy    (Bulgaria)  

  


 

 

 

 

Sesta Lettera

 

Comunicare fra noi puoi dire anche parlare di sentimenti, di amore, di affetti. È quasi inevitabile quindi parlare di famiglia che è l’esperienza che ci accomuna tutte, come figlie, come mogli, come madri, come sorelle. È un ‘esperienza universale, apparentemente simile ma anche molto diversa sotto l’aspetto sociologico, delle tradizioni delle usanze.

Da noi in Italia, nel giro di alcune generazioni tante cose sono cambiate. Una volta, nelle famiglie contadine, era il padre che comandava, spesso in modo molto autoritario. I figli maschi erano ben visti e ben accettati perché rappresentavano la continuità della famiglia. Inoltre avevano parecchi privilegi, normalmente solo loro continua vano gli studi e, sia pure in minima parte, arrivavano ad un diploma o ad una laurea; la figlia femmina era considerata una futura casalinga, si sarebbe sposata e avrebbe avuto figli; quindi frequentava la scuola il minimo indispensabile; l’importante era che avesse una dote consistente di lenzuola, coperte, biancheria, e magari potesse contare su un bel po‘ di soldi.

Sembra passato tanto tempo da allora!  Attualmente, almeno in molte zone d’Italia, una donna è libera nella scelta del fidanzato, del marito o semplicemente di un partner. Non esiste più la tradizione della dote e le ragazze studiano e si laureano come e più dei coetanei maschi.

Sono ormai rare eccezioni le famiglie in cui il padre-padrone comanda a suo piacimento sui figli e sulla moglie. A questo proposito segnalo un interessante libro scritto da Gavino Ledda, un professore universitario sardo ora sulla sessantina, intitolato proprio “Padre padrone” che narra la vita dell’autore a cominciare da quando all’età di sette anni il padre lo tolse violentemente da scuola per destinarlo alla sorveglianza delle pecore; racconta di un padre che non tollerava alcuna forma di distrazione o di divertimento e che spesso puniva il figlio con violente bastonate.

Ora, anche da un punto di vista legale, c ‘è parità fra i coniugi che devono decidere insieme le scelte fondamentali della loro esistenza, dove abitare, come educare i figli. Quasi sempre, inoltre, le famiglie sono costituite solo dai genitori e qualche figlio.

Spesso la moglie lavora fuori casa per necessità della famiglia (alti costi della vita) o per scelta (desiderio di realizzare altri aspetti di sé oltre alla maternità), con la speranza di poter avere in questo modo una autonomia economica reale.

Una volta la donna che non lavorava all’esterno e faceva solo la casalinga poteva essere maggiormente ricattabile dal marito, dato che si trovava in uno stato di dipendenza economica quasi totale. Se non andava più d’accordo con lui spesso era costretta a subire situazioni poco dignitose, umilianti e frustranti.

Attualmente l’educazione dei figli non è più basata, almeno in gran parte, su forme di autoritarismo o di violenza, ma su un certo dialogo.

Con questo non voglio dire che non vi siano contraddizioni all’interno delle famiglie attuale: situazioni di non comunicazione, di disagio e di frustrazione. Se da una parte è l’amore che spinge generalmente due persone all’incontro, alla convivenza o al matrimonio, non sempre quando queste decidono di formare una famiglia e di avere dei figli conoscono profondamente se stessi e l’altro/a che gli/le sta accanto.

Entrano tante componenti in un incontro felice, l’aspetto istintivo, affettivo, passionale è importante, ma forse è altrettanto importante l’essere autonomi e differenti senza paura della propria solitudine esistenziale. Condivido quanto dice, in maniera poetica, Gibran (uno scrittore libanese) parlando del matrimonio: “Amatevi l’un con l’altra, ma non fatene una prigione d’amore. Piuttosto vi sia tra le rive delle vostre anime un moto di mare ... Cantate e danzate insieme e siate giocondi; ma ognuno di voi sia solo, come sole sono le corde del liuto, sebbene vibrino di una musica uguale ... Ergetevi insieme, ma non troppo vicini; poi che il tempio ha colonne distanti; e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro.”

Vicini e distanti; come conciliare questi due opposti? Cosa ne pensi?A me sembra che l’amore però debba farti diventare più te stessa e non renderti uguale all’altro. Ognuno/a di noi ha un suo colore, un suo suono, una sua musica, un suo pensiero, un suo sogno. L’importante è trovare l’armonia fra mondi diversi e forse questa è la ricerca continua di una coppia che non intende spegnere l’amore ma lo cura, lo rinnova, lo stimola, lo fa rinascere, perché rispetta la differenza fra uomo e donna riscoprendola nel quotidiano, anche negli eventuali conflitti.

Per quanto riguarda i figli; non avendoli avuti non mi sento di affrontare il terna della maternità. Anch’ io però sono stata figlia e quindi posso dire, nella mia esperienza, ciò che di meglio mi hanno dato i miei genitori.

Che ai figli vengano trasmessi i valori dei genitori; ciò in cui loro credono, è normale e forse inevitabile. Ma tutto deve avvenire all’interno di una precisa convinzione: i figli non possono essere nostre clonazioni; non possono essere nostri replicanti, hanno una loro individualità, possiedono una libertà che li porterà a percorrere una strada che sarà soltanto loro e che nessuno potrà percorrere al loro posto.

Riconosco ai miei genitori un rispetto per la mia libertà; non mi hanno impedito di percorrere la mia strada, nonostante tendessero ad essere iperprotettivi e ansiosi e la mia scelta non rientrasse perfettamente nei canoni tradizionali.

Amare vuol dire non soffocare, ma lasciare che ognuno faccia la sua esperienza e respiri l’aria che più desidera. Amare è essere vicini; rispettando l’unicità e l’alterità dell’altro, anche di chi è carne della propria carne, sangue del proprio sangue. Riprendendo ancora Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli.. Non vi appartengono, benché viviate insieme... Potete amarli ma non costringerli ai vostri pensieri poi che essi hanno i loro pensieri... Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccate lontano “.

Quale esperienza hai avuto come figlia? E quale esperienza con i tuoi figli? Sei stata rispettata nelle tue scelte e educata alla libertà? Quale tipo di rapporto hai instaurato con i tuoi figli? Che cosa rappresentano per te?

Una insegnante del corso

 


Risposte

 

C’è chi cerca di far diventare i figli ciò che lui non è stato

Alla mia età, quindici anni, il dialogo fra genitori e figli non è sempre facile, anche se importante.

Parlo molto con mia madre ma non le racconto tutto ed è giusto che sia così; secondo me i genitori non sono amici del cuore con cui parlare liberamente di tutto, per certe cose sono parziali e cercano di metterti in testa le loro idee assurde.

Con mio padre ho un rapporto bellissimo, ma poiché lui non è fatto per le chiacchierate tra “padre e figlio”, quando vuol dire qualcosa di solenne, comincia a farfugliare parole senza senso, non perché non c’è dialogo, ma solo per il disagio.

Infatti molti genitori evitano di parlare coi figli per il forte disagio, continuando così arrivano ad un punto che non sanno più che dirsi. In fondo non serve tanto per avere un buon rapporto! Si vive anche meglio in un’atmosfera senza attriti e paure. Certo i genitori devono fare la loro parte, come non riversare i propri problemi sui figli; a volte capita, ed è triste, vedere ragazze che odiano le madri.

Per quanto riguarda l’unità di decisione tra i coniugi, mi sembra che qui in Italia per la maggior parte siano le donne a prendere decisioni nei riguardi dei figli. Ma poi, in fondo, i figli fanno ciò che vogliono; non si può tenere al guinzaglio un figlio, a meno che il figlio non lo lasci fare. Da piccola ho sempre assecondato mio padre perché lo credevo una persona da temere, era poco permissivo e facilmente irritabile. Ma poi ho scoperto che basta chiedere con gentilezza ed indorare la pillola con buoni propositi.

I ragazzi di ora sono molto liberi nelle decisioni e nelle loro scelte. Ci sono genitori che cercano di essere simpatici e di apparire giovani agli occhi dei figli, ma sbagliano. I genitori devono essere severi e realistici! Alcuni invece cercano di far diventare i figli quel che loro non sono potuti essere, oppure “cloni” di se stessi. Ma ci sono anche ragazzi che imitano spontaneamente l’esempio dei genitori; è buffo vedere madri depresse e figli altrettanto depressi, padri “peace and love” e figli altrettanto. Ma spesso i  ragazzi copiano gli stereotipi che propone la TV. È triste vedere le persone tutte uguali!

S.     (Italia-Kenya)


 

Nella mia famiglia non c’ è chi comanda e chi subisce

In Kenya il cambiamento della famiglia non è stato così veloce come qui in Italia. La parità tra madre e padre o tra marito e moglie non è stata ancora raggiunta. Comunque la donna si è riscattata e nelle nuove generazioni moltissime bambine hanno un’istruzione e molte donne lavorano a seconda della disponibilità. Quelle che hanno più di due figli e vengono impegnate a tempo pieno da loro, per guadagnare qualcosa cucinano e vendono pietanze nel quartiere o presso ristoranti.

La differenza tra marito e moglie è data anche dalle diverse mansioni. Nelle famiglie che rispettano le tradizioni antiche il padre non ha molto contatto con i figli, ma spesso è lui che prende le decisioni importanti; anche in Kenya il detto: “Dietro un grand’uomo c’è una gran donna” è valido e le signore in Kenya sono molto furbe.  I matrimoni sono a volte combinati, soprattutto se si tratta di famiglie ricche o importanti. Si tende a sposarsi per interesse. Per una donna la cosa più importante è una buona sistemazione per sé e per i figli e questa è ottenuta con un marito benestante, se non ha un lavoro; altrimenti è libera di stare con chi ama.

I bambini vengono subito avviati alla religione e lì hanno l’educazione che inciderà maggiormente su di loro. Passano la maggior parte della giornata a scuola, sono liberi quel poco tempo che rimane.

Le idee non vengono inculcate a forza dai genitori, ma da tutti gli altri che impongono una miriade di tabù. I miei genitori mi hanno lasciata libera, anche perché ero un tipo indipendente, ho sempre cercato di cavarmela da sola, ma grazie a mio marito mi sono sistemata.

Non ho una grande vita sociale e non avendo un lavoro mi dedico alla famiglia, ma questo non vuol dire che dimentico me stessa per gli altri. In Kenya capita di dimenticare tutto per amore, ma credo anche qui in Italia, come in tutto il mondo.

Con mia figlia ho un buon rapporto e pure con mio marito, ma non cerchiamo di soffocare nostra figlia con le nostre idee. Noi non soffochiamo lei e lei rispetta noi. Quindi penso che nella mia famiglia non ci sia chi comanda o chi subisce, ognuno fa ciò che crede! Senza troppa serietà e senza far pesare i problemi sugli altri.

Selima      (Kenya)


Sarà come rinnovare la vita e risvegliarla come a primavera

Fin dagli albori delle prime civilizzazioni l’uomo ha mostrato fortemente la necessità di una forma di vita sociale attraverso la quale forgiare la propria storia che, in forma globale, rappresenta quella che noi studiamo e chiamiamo la storia dell’umanità.

Da piccoli gruppi chiamati tribù a grandi popoli che oggigiorno tendono sempre più ad unirsi, stiamo vivendo attualmente un processo di unificazione forse mai vissuto in precedenza. Usi e costumi vanno uniformandosi, scompaiono le differenze che in altri tempi generarono guerre ed incomprensioni tra differenti popoli e nazioni. Sicuramente la famiglia, che rappresenta la cellula dell’umanità, è stata soggetta a notevoli trasformazioni, in modo tale da vederne le differenze nel breve trascorrere di una o poche generazioni. Naturalmente viene immediata la voglia di fare confronti, favorevoli o no, tra quella che chiamiamo famiglia moderna e le altre che l’hanno preceduta. Possiamo discuterne all’infinito, ma non riusciremo mai a comprendere se in questo processo di trasformazione la famiglia stia andando incontro ad un futuro migliore o peggiore.

In primo luogo, in molti casi, qualcuno pretende di chiamare famiglia l’unione di due giovani per il semplice fatto che vivono sotto uno stesso tetto, altre volte certe unioni non sono state vincolate da alcun contratto religioso o civile, senza alcun obbligo e senza impegni per il futuro. In altri casi si prende per buona la promessa reciproca nell’attesa di risolvere tutto tra qualche anno... Naturalmente ogni caso ha le proprie giustificazioni; sta di fatto che l’istituzione familiare pressoché ovunque è in crisi; penso che ciò sia dovuto ad una vera e propria reazione dei giovani nei confronti della mentalità dei propri genitori. Due giovani dell’inizio del secolo appena terminato, al conoscersi e al sentire l’uno per l’altro sentimenti di affetto, si scambiavano la promessa di matrimonio col desiderio di una vita per sempre unita e benedetta da tanti figli; ciò accadeva nella quasi totalità dei casi.

Purtroppo noi figli siamo stati testimoni dei loro sacrifici perché una vera famiglia è quasi sempre estremamente pesante da mandare avanti; per questo oggi si tende a sostituire il matrimonio con una semplice unione di fatto e a rinunciare ai figli perché costano troppo. Questo atteggiamento viene spesso giustificato dai problemi che presenta il nostro attuale stile di vita: in realtà potremmo cambiare molto e forse sarà meglio farlo prima di rimanerne totalmente schiavi. Il mondo oggi è più ricco di ieri; però gli uomini schiavi di questa ricchezza sono più poveri, perché vanno perdendo i propri principi. Io sono da poco sposata, ancora non ho famiglia e so che non l’avrò mai finché non avrò figli. Con questo non voglio dire che dovrò rinunciare a tutto e non voglio dire che il numero dei figli debba essere tale da non poterli sostentare, come detta l’amore che avrò per loro e che provo per il compagno della mia vita. Forse chiedo troppo, ma sono convinta che il mio sogno sarà la mia felicità e che presto tanti giovani come me possano pensare nello stesso modo. Sarà come rinnovare la vita e risvegliarla come la nuova linfa risveglia gli alberi a primavera. Quanto alla educazione dei figli penso che debba essere ripartita in egual misura tra i genitori, come a entrambi i genitori corrisponde di comune accordo la scelta da prendere in ogni situazione. E giusto educare i figli rispettando le loro scelte, lasciando la libertà nella formazione di una propria personalità, come del resto è stato per me. Condivido i principi espressi da Gibran, però le frecce scoccate a volte è necessario seguirle per evitare che colpiscano il bersaglio sbagliato.

Gloria       (Paraguay)

 

L’amore nella famiglia come mutuo affetto e sacrificio

Più volte mi sono chiesta che cosa significhi famiglia e altrettante volte mi sono chiesta come veramente dovrebbe essere. Alla prima domanda ho trovato risposte semplici anche se allo stesso tempo complesse. Credo che per famiglia debba considerarsi l’unione di due esseri che hanno deciso di vivere assieme la loro vita dedicandosi a se stessi e ai figli che verranno. Alla base di questa unione sta sostanzialmente l’amore, perciò intendo la famiglia come sinonimo di amore nel vero senso della parola, che significa mutuo affetto e sacrificio… e qui mi sperdo nella complessità della maggior realtà umana: la convivenza.

La famiglia infatti è anche e soprattutto convivenza, ma non solo fisica, direi soprattutto spirituale. Mi chiedo che cosa sia oggi la famiglia se moglie e marito convivono solo poche ore del giorno, se non esistono figli o, se pure esistono, raramente condividono il loro tempo in quello che dovrebbe essere un “nido d’amore” che però in realtà è un semplice tetto. Questo modo di pensare sembra pormi in critica nei riguardi del presente, magari appassionata sostenitrice di arcaici principi. Cercherò di essere sincera confessando che non provo invidia per quella famiglia degli inizi del secolo che vedeva un padre e una madre affranti da fatiche ed umiliati per dover saziare i numerosi figli, dividendo fra tutti un insufficiente tozzo di pane. Oggi la miseria, almeno in molti Paesi del mondo, è stata messa al bando, ma è bene chiedersi a quale prezzo. Io sono giovane ma spero proprio di non dover rinunciare a troppe cose per difendere il diritto fondamentale: l’amore, gli affetti, i sentimenti che dovranno aiutarmi ad avere una famiglia. Ho riflettuto a lungo: penso di rifiutare ogni compromesso con me stessa, con gli altri e con tutto il mondo, nel mio futuro vedo chiaramente me stessa assieme a lui e a loro. Lui ed io vivremo per loro e loro saranno per noi la forza e la speranza, le nostre frecce vive dovranno essere lanciate da un buon arco, teso da una mano ferma. Solo così raggiungeranno felicemente l’obiettivo ideale.

Luisa      (Paraguay)

 

Non più come una caserma

Secondo me la famiglia è un nucleo di due persone che si amano. Nel tempo, quando viene il momento, quel nucleo si arricchisce di figli. Se il rapporto fra i genitori è buono, sano e con tanto amore, la famiglia è buona e tranquilla. Se un rapporto è così, i figli crescono sani e felici.  Nella mia casa paterna non è stato così. Il comportamento dei miei genitori riguardo ai figli era molto rigoroso, severo, pieno di regole come se si fosse in una caserma. Unica risposta che si poteva dare era: sì, ho capito. In caso contrario venivano bruttissime conseguenze. Non avevo nessun diritto, ma solo doveri. Nessuno ha mai rispettato i miei desideri, le mie scelte o la mia libertà. Per tutto il tempo che mi ricordo sempre c’è stato lavoro e studio, mai gioco.

Per liberarmi di tutte queste regole, ho chiuso gli occhi e, senza pensarci, ho fatto un passo lungo, sono scappata e mi sono sposata. Per fortuna ho trovato un uomo buono, troppo giovane ma molto buono. Con tanti sacrifici, lavorando, ho portato avanti gli studi all’università. Con un figlio in braccio, lavorando, dopo breve tempo mi sono laureata. Insieme costruivamo il castello della nostra vita, pietra dopo pietra, ma sempre felici, sinceri, pieni di amore e rispettosi l’uno verso l’altro. Il nostro è stato amore a prima vista.

Abbiamo due figli, tanto amore, molto rispetto, tanta fiducia l’uno per l’altro. Tante volte succede che si litiga per i figli, perché lui dice sempre che i nostri figli hanno troppa libertà. Parlando troviamo la soluzione giusta. Come vola il tempo, come se fosse successo ieri, ma abbiamo passato trent’anni insieme. Prima di sposarmi, ma anche dopo, ho giurato a me stessa che se Dio mi concedeva figli volevo diventare la loro amica, compagna di giochi e da ultimo madre. Mai una persona possessiva, noiosa. Volevo che i nostri figli fossero sinceri con noi, fiduciosi, che sapessero che potevano aver aiuto da noi in qualsiasi caso e da nessun altro, soltanto da noi due. Che potevano chiedere e aspettare il nostro appoggio, se ce n’era bisogno. Lo stesso comportamento devono avere anche i genitori. Non possiamo chiedere ai nostri figli di aver fiducia in noi se noi stessi non siamo fiduciosi e non abbiamo fede in loro. La fiducia e la sincerità devono essere reciproche In questo momento la mia casa funziona così.

Cosa può succedere quando i figli si sposano? Non lo so. Devo aspettare e vedere. Spero e desidero che le persone che si sposano accettino quello che trovano e che siano tranquille e felici. Ho sempre pensato che non si deve fare a nessuno quello che non piace a noi. Se fai bene trovi il bene, se fai il male trovi il male. Le uniche cose che possono portare avanti una famiglia sono l’amore, la felicità, la fede e il rispetto dell’uno verso l’altro.

Miriana       (Iugoslavia)

 

L’amore è accettazione dell’altro

Innamorarsi. Non esiste un sentimento migliore. Dicono che l’essere madre sia ancora più bello, ma non ho avuto bambini, perciò non ne posso parlare. Innamorarsi, chi non si è innamorato/a qualche volta? Forse volare potrebbe essere ancora migliore, però se uno si innamora è come se volasse. E un sentimento che ci fa più belli/e. Infatti si vede, si nota se una persona è innamorata. La faccia si illumina, l’amore esce dagli occhi ma non solo dagli occhi, anche dalle orecchie, da tutto il corpo. Si fanno pazzie, ma non importa. E un sentimento che non ha niente a che vedere con l’altra persona di cui siamo innamorati/e. È  un sentimento individuale, fatto da noi stessi. Costruiamo un’immagine come vogliamo, come ci piacerebbe che l’altra persona fosse.

Spesso la realtà è diversa. Poi arriva l’amore o non arriva. Allora si vedono i difetti che la persona amata ha sempre avuto ma che prima non vedevamo. L’amore è un sentimento maturo, è accettazione dell’altro. Uno decide se vuole o non vuole amare mentre l’innamoramento semplicemente succede. L’amore è fra due, due uniti ma non “arruffati”. Due insieme ma ognuno con la sua personalità, senza diventare uguale all’altro. Ognuno con il suo pensiero e il suo sogno perché diventi realtà il sogno dei due.

Anna       (Spagna)

  

 

 

Settima Lettera

 

Camminando per le vie della città avrai notato un grande numero di chiese; l’Italia, almeno sulla carta, è un Paese a maggioranza cattolico. E difficile dire quanto lo sia per una scelta consapevole o quanto per tradizione; quasi tutti i neonati vengono battezzati molti matrimoni vengono celebrati in chiesa e anche i funerali si svolgono per lo più alla presenza di un prete. Ma da ciò a dire che siamo un Paese in cui i valori cristiani sono diffusi corre una grande differenza. A mio avviso, il messaggio di Gesù è un messaggio universale di amore e di condivisione, di vicinanza agli ultimi e di compassione. La nostra società, che si dice cristiana, ha al suo centro altri punti di riferimento: l’individualismo, il denaro, il successo personale. Il nostro mondo è basato sul possedere, sull’avere, sull’accumulare. Proprio il contrario di quanto Gesù predicava e voleva. Così la sostanza è tradita; spesso ci si accontenta di aspetti religiosi di cerimonie esteriori, ma non si coglie l’essenza, la sola cosa necessaria. Credo che bisogna sempre distinguere fra fede e religione. La religione si limita spesso a qualche pratica esterna, la fede va nel profondo e ti cambia dentro. Spesso la religione può rappresentare solo un ‘appartenenza rassicurante, darti un‘identità di gruppo, senza chiederti un cambiamento di cuore, di mentalità, di vita.

Quand’ero bambina si svolgevano spesso delle processioni per le vie del mio Paese; la gente accompagnava le statue dei santi con canti e preghiere e le case in quell’occasione erano piene di addobbi e di luci. Erano feste a cui partecipavano tutti e che richiamavano spesso antiche feste pagane in occasione della raccolta delle messi, della vendemmia, quasi antichi riti contadini a cui erano state sovrapposte feste cristiane e santi particolari. Si pregava per la pioggia, per i raccolti, come gli antichi contadini pagani. Non dico che allora, almeno in alcuni, non fosse presente una fede profonda, è difficile giudicare le persone nel loro intimo; mi limito quindi a constatare dei fenomeni che in sé avevano radici lontane e pagane; spesso certe cerimonie erano frequentate da tanta gente perché la religione in sé non impegna tanto, è facile, richiede un atto di culto esteriore e nulla più. Ora, nel nostro mondo moderno, sono scomparse in gran parte le manifestazioni del passato, come certe processioni del mondo contadino; sopravvivono in parte nel Sud Italia, quasi residui di un mondo arcaico.

Ora la scelta di fede è un fatto più personale, individuale. Di fronte alla vita e alla morte ognuno si dà risposte diverse. C ‘è chi vive come se al mondo esistesse solo lui, c’è chi vede solo i propri interessi e il proprio mondo, c’è chi ritiene di far parte di un mondo più vasto e di dover rispondere delle proprie azioni anche agli altri, c ‘è chi crede che tutto finisca con la propria morte, c’è chi pensa che niente abbia senso e tutto si verifichi per caso, c’è chi crede che tutto abbia un senso, magari misterioso e nascosto e che a noi in gran parte sfugge. In questo mondo così vario e diverso, credo che essere uomini e donne significhi sempre ricercare, confrontarsi, ascoltare e aprirsi agli altri. Sono gli altri, e soprattutto i più deboli, che rivelano se siamo uomini o donne di fede, se siamo chiusi in noi stessi o aperti agli altri. Il mondo di oggi ci può liberare dalla schiavitù di appartenenze rigide o esclusive per aprirci all’incontro con il diverso e con “l’alterità “. Forse questo è il cammino della fede autentica. Tu cosa ne pensi? Quali sono le tue radici religiose? Quali i tuoi pensieri in proposito? Pensi anche tu che ci sia una profonda diversità fra fede e religione? Cosa significa per te avere fede? Trovi che in Italia ci sia rispetto per le diverse forme religiose o hai scoperto forme di intolleranza, di derisione nei riguardi di certe pratiche religiose o di certe tradizioni?

Una insegnante del corso

 

Risposte

 

Non basta andare in chiesa

Ho letto la tua lettera che mi ha fatto venire tantissimi pensieri. Desidero risponderti e dire come io vedo queste cose. È vero, camminando per le strade anch’io ho notato tante chiese, le case di Dio come mi piace chiamarle. Ognuno di noi ha diritto di pensare come gli pare, credere o non credere. Spesso penso che se crediamo che Dio è uno, che Maria è madre di Gesù e che Gesù è figlio di Dio, non ha importanza come si chiamano le religioni: cattolica, ortodossa, o chissà come. Importante è credere in Dio e aver fede in lui e in noi stessi. Non basta andare in chiesa, inginocchiarsi davanti all’altare e chiedere a Dio aiuto o perdono, questo non basta. Se il tuo cuore e la tua mente non sono sinceri, non puoi fare niente; se tu aiuti gli altri, Dio aiuterà anche te. Ma se fai del male non ti può aiutare nessuno. Se regali l’amore, ti portano amore. L’odio non regala niente, solo odio.

C’è un libro vecchio più di tutti noi. Un libro che è esistito, esiste ed esisterà anche dopo di noi, la Bibbia. Un libro saggio, dove è scritta la nostra esistenza. Un libro che consiglia, libro che guida le nostre anime. In ogni momento libero della nostra vita basta leggerlo per capirlo. Se tutti possono o vogliono capire questo libro oggi, domani, come ieri, non ci verrà mai del male. Se si seguono i suoi consigli, intorno a noi da tutte le parti troviamo amore e rispetto ma non odio. Dentro questo libro saggio ho trovato tanti proverbi che mi sono piaciuti. Voglio scriverne qualcuno anche per voi. Questi proverbi non basta leggerli con la mente e la lingua, si devono leggere con il cuore. Ascoltate bene, aprite il vostro cuore e la vostra mente. Sono sicura che dopo vi sentirete bene. Ascoltate queste parole sagge. Ascoltate questi proverbi che la Bibbia porta dentro di sé: secoli e secoli dalla nascita dell’uomo e dalla sua fine. “A chi il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca esce scienza e prudenza. I saggi riceveranno onore, ma gli stolti ignominia. Non negare un beneficio a chi ne ha bisogno, se è in tuo potere il farlo. Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo. Il figlio saggio rende lieto suo padre, il figlio matto contrista sua madre. C’è chi è ricco e non ha nulla, c’è chi è povero e ha molti beni. In ogni fatica c’è un vantaggio ma la loquacità produce solo miseria. La giustizia fa onore a una nazione, ma il peccato segna il declino dei popoli. Una lingua dolce è un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore. La mente dell’uomo pensa molto alla sua vita, ma il Signore dirige i suoi passi. E meglio abbassarsi con gli umili che spartire la preda con i superbi. Fa più una minaccia all’assennato che cento percosse allo stolto. Un cuore perverso non troverà mai felicità, una lingua tortuosa andrà in malora. Non invidiare gli uomini malvagi, non desiderare di stare con loro, poiché il loro cuore trama rovine e le loro labbra non esprimono che malanni. Con la sapienza si costruisce la casa e con la prudenza la si rende salda; con la scienza si riempiono le sue stanze di tutti i beni preziosi e deliziosi”.

Ecco, come potete vedere, sono tanti questi bellissimi proverbi. Basta solo trovare qualche minuto libero per leggerli. Dopo non è difficile diventare saggio. Basta soltanto leggere, leggere, leggere...

Miriana      (Iugoslavia)

 

Credo solo a quello che vedo

Io sono nata in una famiglia molto religiosa. Mia madre va ogni giorno in chiesa. Mio padre ha lavorato tutta la sua vita in un collegio di gesuiti. La mia casa era sempre piena di preti. Noi siamo in sette, ma a nessuno di noi piace la religione. Io penso che la religione sia basata sulla paura, sul timore di fare qualcosa che non piace al tuo Dio. La fede è un’altra cosa. È una cosa profonda. Ognuno si dà risposte diverse. Ma io non ho fede, credo solo a quello che vedo. La fede è una cosa senza occhi, forse con il cuore..., ma alla fine senza occhi. Quando guardo il mondo non posso credere che ci sia qualcuno sopra tutti noi. Non è possibile per me pensarlo. Credo che tutto si verifichi per caso e che tutto finisca con la propria morte.

Anna       (Spagna)

 

Vera religione è condividere il buono e il cattivo dell’ umanità

Vengo da un Paese molto lontano, dove la religione e la fede sono fra le cose più importanti per noi. Ci sono tante maniere e forme di praticare la religione e la fede; ci sono persone che vanno in chiesa soltanto quando hanno bisogno di essere ascoltate da qualcuno, oppure per far credere alla gente che sono religiose, ma la verità è che la fede è qualcosa di più profondo. Quand’ero piccola ricordo bene che con la mia mamma pregavamo sempre insieme tutte le sere perché non mancasse mai nella vita nulla a nessuno. Ora, nel nostro mondo moderno, sono cambiate tante cose, è molto diverso da prima; ognuno pensa a se stesso, i più deboli e poveri rimangono sempre indietro con la speranza di un domani un po’ migliore. In questo mondo così diverso dobbiamo soprattutto essere più nobili e più aperti agli altri che hanno bisogno di noi. Io penso e credo veramente che fra fede e religione ci sia una profonda differenza, perché essere religioso non vuoi dire soltanto andare in chiesa o pregare, in realtà la vera religione è essere fedele a Dio e soprattutto condividere il buono e il cattivo dell’umanità.

Gloria       (Paraguay)

 

Imparare ad amare non solo se stessi

La religione in Bulgaria, il Paese dal quale provengo, è cristiana-ortodossa e in minoranza islamica. Durante la dittatura comunista avevano privilegi coloro che facevano parte del partito comunista, mentre le persone che decidevano di non nascondere la loro professione di fede in Dio erano discriminate: non potevano avere una promozione o un aumento di stipendio, per i giovani era molto difficile entrare all’università, ecc. Tutto ciò però non ha soffocato la fede della gente. Il Natale e la Pasqua non erano feste ufficiali, ma in tutte le case si festeggiavano secondo le tradizioni cristiane. Secondo me ognuno deve avere la possibilità di scegliere se essere religioso o no e quale religione praticare. Penso che la cosa più importante sia avere fede, quella fede che sorge dal profondo del cuore e che si chiama amore. Non parlo solo dell’amore fra l’uomo e la donna, ma anche di un sentimento di pace, misericordia, umiltà e catarsi che ti riempie guardando il cielo, il mare, le montagne o un bambino; tutto questo è amore per la vita. L’amore è anche quando senti gioia vedendola negli occhi degli altri oppure quando senti il dolore se un essere umano, un animale o un fiore soffre e senti il bisogno di proteggerlo ed aiutarlo.

La fede è ciò che ci aiuta a superare momenti difficili della nostra vita, come la fame, la morte di una persona cara, una malattia grave, una violenza subita. La fede ti cura l’anima quando il dolore è insopportabile, ci aiuta a non lasciare spazio al male che è capace di avvelenarti, di fare di te una persona morta dentro, senza amore e speranza, piena di odio e rancore verso gli altri che hanno ciò che tu non hai.

Io credo che Dio sia uguale per tutti, indipendentemente dalla religione, e il rispetto per la vita debba far parte della nostra morale. Mi fanno paura coloro che usano il nome di Dio per manipolare la gente e usarla per i loro scopi, oppure per convincere qualcuno ad uccidere o a suicidarsi. La religione spesso si usa anche per provocare guerre, ricordiamo l’Algeria, l’Albania, i Curdi, ecc. Il mondo sarà più bello se gli esseri umani troveranno la fede e impareranno a amare non so o se stessi ma anche gli altri esseri umani, indipendentemente dalla loro religione, dal colore della loro pelle e dalla nazionalità alla quale appartengono.

Villy       (Bulgaria)

 

Libera scelta tra due proposte religiose

In tutte le religioni c’è chi afferma di essere credente ma non segue tutte le regole. È naturale in una società così frenetica dove non si ha nemmeno il tempo da dedicare alla propria famiglia. Le persone partecipano ai riti religiosi solo per convenzione o tanto per mostrare agli altri che si crede a qualcosa; ma non è giusto, si mente solo a noi stessi. Sono tanti in Italia quelli che non praticano la religione cristiana e che si limitano a partecipare alle cerimonie più importanti come Pasqua e Natale che “riscuotono successo” solo perché sono diventate pretesti per scambiarsi doni. È assurdo diventare più buoni a Natale; perché durante l’anno non bisogna esserlo? Spesso i bambini non conoscono il vero significato di queste feste e si lasciano trasportare dalla frenesia, dalle luci, dai regali e così pure i grandi che non vivono le feste religiose come un momento per celebrare Dio, ma solo per consumare. In Italia spesso i ragazzi non hanno una buona conoscenza dei loro testi religiosi e non è giusto che solo da anziani ci si avvicini alla religione!

Nel Kenya la situazione è leggermente diversa. Le religioni più importanti sono la cattolica e la musulmana. Infatti ci sono scuole cattoliche e islamiche, ma non c’è una divisione rigida, ognuno va nella scuola che preferisce; solo che non partecipa ad alcune lezioni o non segue alcune regole. Per esempio nelle scuole musulmane nel mese di digiuno gli alunni si fermano a pregare dopo le lezioni, certo i ragazzi cattolici non lo fanno. I ragazzi musulmani fin da piccoli, ogni giorno durante il pomeriggio, a parte il venerdì, vanno a scuola di Corano, come qui in Italia vanno al catechismo; solo che la scuola coranica dura parecchi anni. Ogni sera i ragazzi, grandi e piccini, vanno alla moschea per pregare. E molto importante perché così i ragazzi conoscono a fondo la loro religione che è piuttosto complessa. Un aspetto importante della religione islamica è la predicazione in arabo, ovunque. Ogni preghiera viene fatta in arabo come prima si usava il latino in Italia. E anche per questo che dedicano più tempo allo studio del loro testo, dovendo conoscere almeno un minimo di arabo. Gli adulti devono pregare cinque volte al giorno e devono essere puliti quando lo fanno; ci sono regole specifiche sull’igiene prima della preghiera. E vero, la religione musulmana è dura e complicata, è difficile il mese di digiuno in cui i ristoranti aprono alle quattro del pomeriggio; è un mese in cui bisogna lavorare e studiare a stomaco vuoto, ma, secondo me, sono molto più vicini a Dio. Certamente anche i cattolici lo sarebbero se seguissero con maggior impegno le regole.

In Kenya tutti sono fratelli e si aiutano a vicenda. Sono importanti le elemosine che spesso danno alla moschea o ai bambini poveri. Un altro esempio di fratellanza si trova nella cerimonia funebre. Il corpo viene lavato e poi “benedetto” con regole ben precise. Dopo la sepoltura segue una settimana di preghiere collettive per il defunto. Dopo 40 giorni viene fatta una grande riunione dove si offre un pranzo ed un bel gruppo di persone prega per il defunto. Però la vedova, se si tratta della morte di un uomo sposato, deve rimanere in lutto per quattro mesi e dieci giorni, periodo nel quale non può vedere nessun uomo, solo donne, e quindi non può uscire di casa. Importante è il giorno in cui finisce il digiuno, importante almeno quanto il Natale. Si banchetta e si prega Dio. Ci si scambiano doni e i ragazzi escono per recarsi al luna park. Certamente, come ho già detto, in ogni religione c’è chi non pratica effettivamente il proprio credo e quella musulmana non fa eccezione, ma i casi sono meno frequenti.

La mia famiglia è divisa in due religioni: mio marito è cattolico io sono di religione islamica. Mia figlia non ho ancora deciso! Ha 15 anni, avendo la possibilità di scegliere, lo vuole fare con calma; intanto studia entrambe le religioni e dice che in fondo l’importante è credere a qualcosa, a qualcuno che, più grande di te, possa aiutarti e darti la forza di andare avanti. Mia figlia dice che quando avrà fatto la sua scelta cercherà di vivere la religione abbracciata con il massimo impegno. Mio marito in chiesa ci va spesso ed io, anche se abito qui in Italia, cerco di seguire le regole del Corano e quando posso aiuto i parenti in Kenya. Nonostante ciò non ci sono mai stati conflitti o incomprensioni tra noi. Beh! È anche un matrimonio tra due culture.

Selima     (Kenya)